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Il caso di Marco Zennaro, l’imprenditore veneto rapito in Sudan

Zennaro, 44 anni, da tre mesi è in carcere in Sudan in condizioni disumane, e non si capisce bene perché. È l'ennesimo caso di un italiano rapito all'estero e dei tentativi dell'Italia di rimediare

L’imprenditore veneto Marco Zennaro è partito alla volta di Khartoum, in Sudan, verso la metà di marzo. Ingegnere elettrico abituato a viaggiare nel Paese africano da decenni per conto dell’azienda di famiglia, arriva nella capitale per risolvere una controversia commerciale: una partita di trasformatori elettrici che aveva venduto a una società locale, del valore di 1.156.000 euro, era stata giudicata non conforme al contratto. Arrivato in Sudan, gli sequestrano il passaporto e gli notificano una denuncia per frode: è soltanto l’inizio di un calvario che ancora non ha fine.

Dopo essere stato chiuso in una camera d’albergo per due settimane, la questione sembra essere risolta con il pagamento di 400mila euro: sono i primi di aprile, e Zennaro sta per partire per tornare a casa quando viene arrestato di nuovo e portato in una cella del commissariato locale. Nel frattempo, il distributore con cui aveva fatto affari, Ayman Gallabi, viene trovato morto in circostanze misteriose. Il secondo arresto viene ricondotto ad Abdallah Ahamed, uomo di Mohamed Hamdan Dagalo, uno dei generali che si contendono il potere nel Paese dopo il colpo di Stato che nell’aprile del 2019 ha deposto Omar Hasan Ahmad al-Bashir, che controllava il Sudan dal 1993. La richiesta sarebbe quella di ottenere altri 700 mila euro di risarcimento per i trasformatori non idonei prima di liberare Zennaro.

A mobilitarsi per cercare di riportare in Italia l’imprenditore sono stati prima il governatore del Veneto Luca Zaia e poi la Farnesina: per cercare di dirimere la controversia è stato inviato in Sudan Luigi Vignali, direttore generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie del Ministero degli Esteri.

Delle condizioni estreme in cui vive Zennaro in carcere hanno raccontato i familiari, che sono riusciti a tenersi in contatto con lui. “In questi giorni il caldo a Khartoum raggiunge i 46 gradi all’esterno, quindi all’interno del commissariato si raggiungono dei livelli folli. Dicono che addirittura i muri scottino. La temperatura è fuori controllo: gli portano del cibo, ma ha poco appetito”, racconta il fratello Alvise a Rolling Stone. “Fisicamente è molto molto provato, perché sono passati giorni, settimane e poi mesi: sono tanti giorni per rimanere in delle condizioni igienico-sanitarie estreme, in una condizione psicofisica difficile. E la sua detenzione non rispecchia il trattamento dovuto per una controversia commerciale: non ha senso che qualcuno, per una controversia commerciale, sia buttato a terra e tenuto chiuso in una stanza per 60 giorni”.

A prima vista, la vicenda di Zennaro fa tornare in mente i molti casi di italiani rapiti, detenuti e talvolta uccisi all’estero negli ultimi anni – dalla storia tragica di Giulio Regeni a Silvia Romano, da Luca Tacchetto all’attuale caso di Giovanni Calì, sequestrato in questi giorni da un gruppo armato ad Haiti. Molti altri esempi si possono trovare tra le pagine di cronaca degli scorsi trent’anni: il fatto che l’Italia normalmente preferisca negoziare e pagare un riscatto piuttosto che rischiare liberazioni rocambolesche come quelle che hanno talvolta accompagnato la liberazione di ostaggi statunitensi, inglesi o francesi, sicuramente non sfugge all’attenzione.

Ma, nel caso di Zennaro, il fatto che dall’altra parte ci siano delle istituzioni statali cambia le carte in tavola. A maggior ragione perché il Sudan, nonostante l’attuale crisi istituzionale ed economica, resta uno snodo commerciale centrale per la regione – ed è stato rimosso da pochissimo dalla lista dei paesi che gli Stati Uniti considerano sostenitori del terrorismo internazionale.

“Se i sequestri da parte di gruppi terroristici o criminali crea un certo tipo di problematiche relative all’individuazione di intermediari che siano davvero in contatto con gli autori del sequestro, in questo caso si ha a che fare con delle autorità nazionali”, spiega Luciano Pollichieni, ricercatore del think tank Critica Research and Analysis di Washington D.C. che si occupa della geopolitica di attori non-statali come i gruppi terroristici. “Quello che noi sappiamo sulla storia di Zennaro ci fa capire anche che è un caso diverso da quello di Regeni o di Zaky: Regeni era spiato da mesi, Zaky era segnalato da anni come attivista contrario al regime egiziano. In quei contesti c’era la volontà precisa e ragionata dello Stato di colpire quella persona in seguito a varie analisi e raccolta di informazioni. In questo caso, dal poco che sappiamo, è diverso”.

Le vie per continuare ad esercitare pressione, comunque, non mancano. “L’errore che si fa spesso”, commenta Pollichieni, “è quello di pensare che non si possano mettere in pericolo in nostri rapporti commerciali con i Paesi emergenti – come abbiamo fatto con l’Egitto. Ora, è vero che l’Italia ci tiene ad avere rapporti privilegiati col Sudan, ma la cosa è reciproca: questo significa che si possono esercitare pressioni su determinati organi per arrivare al rilascio o a delle condizioni di detenzione più umane, perché sul breve periodo questo si può ottenere”.

L’arrivo di Luca Vignali a Khartoum sembra aver già cominciato a sbloccare la situazione in questa direzione: secondo una nota della Farnesina, dal 2 giugno l’imprenditore  è stato trasferito in una struttura detentiva più organizzata, dove dispone di una brandina in un’area comune non sovraffollata e ha accesso a servizi e spazi esterni. Inoltre, Zennaro può comunicare con la famiglia con il proprio cellulare e ricevere visite più regolari. Ora si tratta di fare il punto con i privati sudanesi per dirimere quella che continua ad essere una controversia commerciale, per quanto gestita in modo a dir poco anomalo.

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