I tre giorni del Condor Craxi | Rolling Stone Italia
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I tre giorni del Condor Craxi

Com'è stato l'happening socialista ad Hammamet? Pieno di vecchie glorie, grandi assenze, matrimoni spiazzanti e omelie ameliane, nella luce nitida della costa al largo dell'Italia

I tre giorni del Condor Craxi

Bettino Craxi ad Hammamet

Foto: Jeremy Bembaron/Sygma/Sygma via Getty Images

Imbiancati ma ricchi nei velluti che sfoggiano – testa di moro, verdone, blu oltremare, queste le nuance più gettonate – eccoli i vecchi socialisti diligentemente in fila all’imbarco del volo Tunisair che ci porterà a Tunisi e da lì ad Hammamet, dove finalmente si ricongiungeranno col vecchio leader. Quotidiano d’ordinanza nella tasca del paltò, addosso qualcosa di rosso: una spilla all’occhiello, la montatura dell’occhiale, le calze, la cravatta. Vent’anni dalla morte di Craxi, sembra quasi incredibile dirlo, un quarto di vita stando abbondanti nelle stime, un’enormità per quanto riguarda i tempi della politica, un paio di ere geologiche se consideriamo quel che è avvenuto nella politica italiana. Mani pulite, la cosiddetta Seconda Repubblica (mah), il berlusconismo, l’alternanza, fino a quest’obbrobrio che non si sa nemmeno come definire. Questo sì: si è passati da Craxi a Conte, cinque lettere per entrambi, cinque lettere che però esprimono universi opposti.

Hammamet gode di una bella luce che rende tutto nitido, formidabili i tramonti, pare che Craxi ne fosse innamorato, ma chi del resto non lo è. Il presuntuoso, l’arrogante, il Cinghialone, infine il Ladro e il Latitante, questo è stato per molti Craxi in vita, guardato con sospetto sia a destra sia a sinistra, anche durante i momenti di massimo splendore elettorale. Ora che le “maxiballe” sulla magione tunisina che non è, sul tesoro trafugato che non c’è e sul lusso sfrenato che non fu sono finalmente venute a galla senza dubbi di sorta, e che per mezzo di quest’anniversario rotondo – insieme al film di Gianni Amelio e a un pugno di libri che sono usciti o usciranno in questi giorni (L’antipatico di Claudio Martelli, Presunto colpevole di Marcello Sorgi, a breve Filippo Facci) – la bava alla bocca del popolo sembra in via di asciugamento. Non che si nutra grande fiducia: confidare in un corpo elettorale che esprime – seppure ancora solo via sondaggio – una maggioranza assoluta di consensi tra 5Stelle, Lega e Fratelli d’Italia, ovvero tre partiti da brivido latino-democratico, non è particolarmente agile né confortevole. Ma comunque il clima infame in effetti pare stia diradando, la voce unica del giustizialismo mostra sempre più la corda, la verità politica sui quei processi che fecero fuori il leader socialista comincia a fare breccia nelle possibilità mentali di destinatari fino a ieri accecati e avversi. Ripeto: non ci si crede fino in fondo, ma si sta muovendo qualcosa.

L’umore della delegazione è buono, sentono che il vento sta cambiando e ne sono compiaciuti. Fioccano le battute, tutte rigorosamente a doppio senso politico: davanti alla ressa all’ingresso della mostra fotografica “Craxi ambasciatore del Mondo”, uno dei più risoluti cerca di sciogliere l’imbuto favorendo l’uscita nella strettoia dei vicoli della medina: “Spostatevi a sinistra!”. “Con l’aria che tira ci penserei due volte” lo fulmina un altro agilmente sopra gli 80. Giù risate. Conciliabolo tra due compagni: “Ma Martelli c’è?”. “Non lo so, ma hai visto? A 76 anni si sposa con quella giovane del Pd”. “C’è speranza per il riformismo”, si inserisce veloce un terzo. La vicenda del matrimonio di Martelli è in effetti sulla bocca di tutti:  la grande differenza di età tra gli sposi sorprende e spiazza. Si vuole capire come sia possibile, si vogliono comprendere le ragioni, soprattutto si vuole indagare se sia un modello replicabile. Temiamo di no.

Oltre al “caso Martelli” i socialisti in trasferta ad Hammamet recitano altri due mantra primari: Il primo – e per distacco – è: “Quando è successo il casino…” seguito dalla proposizione principale del caso. I processi, gli arresti e tutto quell’arco temporale che copre il biennio 1992/1993 è riassunto con quest’espressione: “il casino”. Il secondo: “Non c’è nessuno del Pd”, spesso con corollario “è la dimostrazione di quel che sosteniamo da sempre”. In realtà non è vero che non ci sia nessuno del Pd, c’è Giorgio Gori, impavido frangiflutti della miriade di insulti che naturalmente si riverserebbero sui democratici, rei di essere sempre i soliti vecchi comunisti anti-socialisti e anti-craxiani. Gori è ovunque: in fila agli imbarchi (volerà in economica insieme a tutta la delegazione), al cocktail di benvenuto organizzato dalla Fondazione Craxi, alla mostra fotografica nella medina, alla messa di suffragio del sabato sera, alla commemorazione sulla tomba, di nuovo agli imbarchi per il ritorno. Affabile, sorridente e sempre gentilissimo, parla con tutti ripetendo quel che tutti qui vogliono sentirsi dire: “Non si può lasciare Craxi alla destra, si rivolterebbe nella tomba”. Come dargli torto. Dovrebbe però spiegarlo ai suoi compagni di partito: l’assenza di esponenti di vertice del Partito democratico oltre a segnare una totale mancanza di sensibilità sul tempo presente, dimostra che i socialisti hanno ragione. Il Pd è un partito senza patria, e se ce l’ha non è quella della socialdemocrazia, del socialismo liberale, del riformismo. Trent’anni di maquillage e due segreterie che rappresentano l’eccezione e non la regola non tacciono una verità storica: il patrimonio genetico primario dei democratici non risiede nei Brandt, nei Mitterand, e quindi nemmeno nei Craxi, che di quella corrente socialista internazionalista, riformista e modernizzatrice fu protagonista, a partire dal cosiddetto “Progetto” del 1978, successivamente ripreso nella conferenza di Rimini del 1982, dove lo sforzo di rinnovamento divenne ambizione di Governo, non tradita anzi raggiunta nel 1983.

Che dopo 30 anni i democratici non riescano ancora a fare i conti con Craxi è un fatto politico di una gravità enorme. Craxi dovrebbe essere addirittura il padre spirituale dell’attuale Pd: fu tra i primi a capire che “il metodo delle riforme” rappresentava, nella bella definizione del sociologo e politologo tedesco Ralf Dahrendorf, “la più grande rivoluzione pacifica della Storia”. Loro ci sono arrivati con 20 anni di ritardo, più per necessità di sopravvivenza che per convinzione, e pur condividendo oggi impostazione e obiettivi craxiani, pagano ancora dazio al giustizialismo perché quello sì fa purtroppo parte innegabile del loro Dna. Il pool di Milano, il manettarismo, la gogna: non si può stare da entrambi i lati delle monetine, e non dimentichiamoci che quelle del Raphael provenivano dalle tasche dei militanti del Pds aizzati dall’allora segretario Achille Occhetto nel comizio di Piazza Navona.

La paura principale qui ad Hammamet 20 anni dopo è proprio questa: che si nasconda tutto ancora una volta sotto il tappeto, che non si riesca a far valere le ragioni storiche del Psi, e quelle umane di Craxi. Il livello di diffidenza è altissimo. “Il casino” ha lasciato i segni: i giornalisti sono trattati con diffidenza, gli avversari di un tempo – i “colpevoli” dell’estinzione socialista per i presenti in Tunisia – anche peggio. Durante la proiezione del bel documentario Sky Il caso Craxi. Una storia italiana, ogni intervento di D’Alema, per quanto misurato e diciamo “aperto” a una rivalutazione sull’operato del leader socialista, viene accompagnato da una caterva di fischi e insulti. Non c’è niente da fare: “il casino” vive, “il casino” non è stato digerito, perché “il casino” è andato ben oltre Craxi, ha compreso tutto il partito, tutta la Prima Repubblica, e quindi tutto il loro universo, di fatto annientandolo. Quando Stefania Craxi – praticamente senza voce – sale sul palco rivendicando la storia di suo padre e di tutto il Psi (“Ci chiamavano reduci, ora vedo che i reduci sono tanti”; “prima o poi a sinistra dovranno fare i conti con Craxi”), cala un silenzio gonfio di rabbia, la stessa che esprime la figlia del leader in ogni parola. È una chiamata di popolo, un discorso chiaro e forte di una donna ancora profondamente in collera che non ha sotterrato furore e sdegno.

Tolto questo momento, il weekend craxiano corre via a medio-bassa intensità emotiva. Chiare le consegne tra i compagni più avanti negli anni: di giorno si parla di politica, dal tramonto in poi esiste solo l’universo femminile. Hai visto quella, hai visto quell’altra, commentano tutto e tutte, sono incontenibili. Soltanto nella piccola Chiesa cattolica per la messa di suffragio del sabato sera si danno pace, e viene fuori che sono molti i cattolici praticanti: la stragrande maggioranza conosce la liturgia, moltissimi recitano e cantano. Il parroco, Don Domenico, ricorda il Concordato del 1984 e poi entra subito in modalità Gianni Amelio: alla larga dalla politica, meglio non rischiare. In generale è proprio questo atteggiamento ponziopilatesco a caratterizzare ancora oggi l’approccio alla figura di Bettino Craxi. Non essendo ancora pienamente sdoganato, l’italiano – sia esso politico, intellettuale, santo o diavolo – tuttora non se la sente di rischiare. Non vuole passare dalla parte dei ladri, lui che per definizione fa parte degli onesti. Il tempo per capire chi è stato davvero per l’Italia e per la sinistra Benedetto Craxi detto Bettino arriverà – l’italiano questo lo sa, lo sente, ma non è ora.

L’ultima nota scritta da Craxi prima di morire centra profeticamente il punto: “In questo processo, in questa trama di odio e di menzogne, devo sacrificare la mia vita per le mie idee. La sacrifico volentieri. Dopo quello che avete fatto alle mie idee la mia vita non ha più valore. Sono certo che la storia condannerà i miei assassini. Solo una cosa mi ripugnerebbe: essere riabilitato da coloro che mi uccideranno”. Tranquilli, non c’è fretta.