I suicidi in divisa sono in aumento, e se ne parla troppo poco | Rolling Stone Italia
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I suicidi in divisa sono in aumento, e se ne parla troppo poco

Nei primi tre mesi di quest’anno, 18 persone arruolate nelle Forze di Polizia o nelle Forze Armate si sono suicidate. Già nel 2014, l’Osservatorio Epidemiologico della Difesa indicava il suicidio come terza causa di morte tra i militari, dopo incidenti e malattie

I suicidi in divisa sono in aumento, e se ne parla troppo poco

Foto di Antonio Masiello/Getty Images

Nei primi tre mesi di quest’anno, 18 persone arruolate nelle Forze di Polizia o nelle Forze Armate si sono suicidate. Dopo la tregua della pandemia, nel 2021 i suicidi sono tornati a salire: alla fine dell’anno si contavano 57 casi. La morte di Umberto, agente di Polizia Penitenziaria, che si è ucciso con la pistola d’ordinanza nei primi mesi del 2021, rientra tra quelle conteggiate dalle amministrazioni come “eventi suicidari”. «Se uno con la divisa muore, il resto del mondo si gira dall’altra parte», ha raccontato a Rolling Stone la madre Rosanna. «Le famiglie sono abbandonate e non si può più parlare».

Già nel 2014, l’Osservatorio Epidemiologico della Difesa indicava il suicidio come terza causa di morte tra i militari, dopo incidenti e malattie. I dati sul suicidio, però, sono difficili da raccogliere, perché il ministero degli Interni e della Difesa conteggiano solo quelli avvenuti in caserma o in comando. Quelli raccolti dalle associazioni o da altre organizzazioni indipendenti, come l’Osservatorio Suicidi in Divisa, si basano, invece, su segnalazioni e fonti aperte. Ma in tanti casi la notizia del suicidio non esce dalle quattro mura di casa o della caserma, proprio per un eccessivo pudore delle famiglie, che lo ritengono un evento di cui vergognarsi.

Nonostante il problema legato alla raccolta dei dati sui suicidi nelle Forze di Polizia e nelle Forze Armate, ​​alcuni osservatori indipendenti hanno notato un numero di suicidi doppio – in percentuale – rispetto alla media registrata nella popolazione civile italiana. Eppure, quello del poliziotto, del carabiniere o del soldato non è l’unico mestiere in cui si è a contatto con la morte o con elementi stressogeni. Anche medici e infermieri fanno i conti con burnout e sindrome da stress post traumatico, ma il tasso di suicidi in questa categoria non è statisticamente preoccupante. «Il disagio psichico vissuto in caserma è più forte che in altri ambienti lavorativi perché nel mondo militare non c’è possibilità di contraddire nessuno», spiega a Rolling Stone Alessia, che nella vita fa la carabiniera. «Si fa il lavaggio del cervello, si spegne l’iniziativa personale. È un controsenso: se devi essere pronto a indagare su quello che accade hai bisogno di essere libero dalla catena gerarchica per fare bene il tuo lavoro». Se poi lo psicologo che dovrebbe fornire un supporto a chi chiede aiuto è anche quello a cui spettano le valutazioni sull’idoneità al servizio del personale, il cortocircuito è evidente. E “mamma” Arma diventa “matrigna”. «Quando questo accade, i militari vanno in crisi. Certo, l’amministrazione non è la causa dei suicidi. È però sicuramente una concausa. E avere un’arma a disposizione rende tutto più semplice e istantaneo», dice Alessia. «Ho subito vessazioni dai miei superiori. Sono stata male, mi sono presentata in infermeria e ho detto di voler consegnare l’arma e il tesserino. Contro i mulini a vento non si vince, ho sofferto troppo. Adesso sono in cura da una psicologa».

Come racconta Rosanna, il nonnismo è scomparso dalle caserme, ma vessazioni e preferenze godono ancora di ottima salute. «Mio figlio ha avuto cento rapporti, non lavorava bene a causa dei soprusi e delle cattiverie a cui era sottoposto», spiega. «Gli facevano rapporto se arrivava in ritardo, oppure se si rifiutava di fare un compito che lui riteneva spettasse a un suo collega di grado inferiore. Lo hanno bullizzato e ha cominciato ad avere paura: doveva fare quello che gli dicevano di fare e non si poteva ribellare».

Carlo Chiariglione, presidente di Assomilitari, è stato sospeso e poi congedato dall’esercito per aver denunciato le vessazioni dei superiori e alcune irregolarità. «Un mio amico e collega si è ucciso trenta giorni dopo che io avevo fatto una relazione in cui scrivevo che un comandante manteneva alcuni atteggiamenti profondamente stressogeni nei confronti dei subalterni», racconta a Rolling Stone. «La linea di comando non è intervenuta e il mio amico si è suicidato proprio sotto il comando di questo ufficiale. Aveva quarant’anni e due figli. Quando ho provato a far riaprire il caso, mi sono trovato prima sospeso per 12 mesi e poi congedato». Se, come sostiene Chiariglione, non tutti i suicidi possono essere ricollegati solo allo stress vissuto in caserma, è anche vero che le vessazioni subite in ambito militare sono molto diverse da quelle ricevute in ambito civile. «Quando ti attaccano sei perso non solo professionalmente, perché i colleghi ti abbandonano per paura, ma anche sotto il profilo umano, perché anche la famiglia soffre. C’è poi l’aspetto economico: perdi lavoro e stipendio e sei costretto a pagare gli avvocati per difenderti. E, per finire, c’è l’onore: sei oggetto di accuse, a cui non puoi mai controbattere perché l’amministrazione militare innalza dei muri di gomma».

Per difendersi dai procedimenti disciplinari a suo carico, Giuseppe ha visto la sua vita stravolta. «Più volte sono finito davanti al giudice. Io e i miei famigliari stiamo soffrendo, sono sei anni di calvario. Il mobbing che ho subito ha ridotto il mio potere d’acquisto economico, perché ho dovuto pagare gli avvocati e mi hanno ridotto lo stipendio. Ho dovuto smettere di farmi seguire dallo psicologo, non avevo più soldi», spiega. «È un fardello pesante da portare, capisco che ci siano colleghi che decidono di farla finita». Giuseppe si è arruolato nei Carabinieri nel 1994. «Fino al 2016 non ho mai ricevuto un richiamo o una sanzione disciplinare. Con chi ho lavorato sono sempre rimasto in buoni rapporti», dice. «Adesso, però, i colleghi mi scansano, per timore di essere coinvolti in qualche modo. Devo sempre dimostrare di dire la verità, tutti mettono in dubbio quello che dico e quello che faccio».

Secondo Monica Giorgi, del Nuovo Sindacato Carabinieri, realtà nata nel 2019, per prendere consapevolezza del fenomeno dei suicidi nelle Forze Armate e di Polizia bisogna cercare “nuove chiavi di lettura” del problema. «La maschilità virile, che è il modello tipico a cui si aspira nelle caserme e nei comandi, ma è un paradigma fallimentare perché presuppone un carico di responsabilità personale molto pesante», dice. «È un carico che non mette in condizione di riconoscere la propria emotività: il messaggio che passa è che chi si suicida sia debole». Di fronte a un sistema rigido, quasi da “contenimento psicologico”, come quello delle realtà militari e di polizia, il primo passo verso una maggiore tutela della salute mentale dei lavoratori è, quindi, il riconoscimento della fragilità. «È come se il sistema scaricasse la responsabilità sul suicida» e, di conseguenza, «Chi soffre si sente ancora più isolato». E così, la storia della caserma che è anche una grande famiglia rischia di diventare solo una scusa da raccontarsi per seppellire sofferenze, vissuti e persone.