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I suicidi in carcere sono un problema serio, ma in campagna elettorale non ne parla nessuno

56 persone si sono tolte la vita in carcere quest'anno, 1.280 dal Duemila a oggi. La politica, però, sembra averlo dimenticato: i programmi dei partiti, infatti, non dedicano molto spazio a una questione delicata come quella carceraria

Foto di MIGUEL MEDINA/AFP via Getty Images)

Alessandro Gaffoglio, 24 anni. Mohamed Siliman, 24. Francesco Iovine, 44. Donatella Hodo, 27. E non solo: 56 persone si sono tolte la vita in carcere quest’anno. 1.280 dal Duemila a oggi, come ricorda il Centro Studi di Ristretti Orizzonti.

Ogni tanto una storia riesce a scavalcare – almeno per qualche giorno – il muro dell’indifferenza che circonda, rendendoli invisibili, i 55mila detenuti presenti nelle sovraffollate carceri italiane.

I casi più recenti sono quelli di Alessandro Gaffoglio e Donatella Hodo. Gaffoglio si è suicidato a Ferragosto nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Era recluso dal 2 agosto per due rapine nel quartiere di San Salvario. A colpire l’opinione pubblica il fatto che il giovane fosse incensurato e con problemi psichiatrici. Aveva già provato a togliersi la vita cinque giorni prima della morte, compiendo un gesto considerato “dimostrativo”.

La notte tra l’1 e il 2 agosto Hodo si è uccisa inalando del gas dal fornello della cella, nel carcere veronese di Montorio. La donna si trovava nell’istituto penitenziario per alcuni furti in negozi per procurarsi la droga. Ad accendere i riflettori sulla vicenda è stata la lettera aperta del giudice di sorveglianza Vincenzo Semeraro letta durante il funerale di Hodo.

«Ogni volta che una persona detenuta si toglie la vita significa che tutto il sistema ha fallito. Nel caso di Donatella, io ero parte del sistema visto che seguivo il suo caso da sei anni. Quindi, come il sistema, anche il sottoscritto ha fallito».

Una testimonianza senz’altro importante, ma come denunciano le donne della sezione femminile della casa circondariale Lorusso e Cutugno «il vero crimine è stare con le mani in mano». Per questo motivo, il 23 agosto le detenute hanno annunciato una protesta non violenta contro i suicidi dietro le sbarre che durerà fino al 25 settembre, data delle elezioni politiche.

«Scriviamo da una cella della sezione femminile delle ‘Vallette’… Ognuna di noi, dal 24 agosto al 25 settembre, farà alcuni giorni di sciopero della fame: ‘a staffetta’ ognuna di noi vuole esprimere solidarietà per tutti coloro che sono morti suicidi, soli dentro una cella bollente… Ognuna di noi, aderendo a questa iniziativa non violenta vuole esprimere lo sdegno e il dissenso per il menefreghismo di una certa politica e delle istituzioni! Per noi e per i tutti i reclusi la ‘cattività’ in cui ci vorreste tenere a vita è inaccettabile. Mentre voi non ci nominate, noi vi accompagniamo fino al giorno delle elezioni, poi dopo si aprirà l’ennesimo capitolo… Ci negate una riforma da anni… Ciononostante non ci zittiamo! Chiediamo il supporto e la solidarietà di tutti coloro che si occupano di diritti di far arrivare le nostre voci ovunque… Serva! Le voci nostre e dei compagni che non ce l’hanno fatta! Un abbraccio prigioniero. Le ragazze di Torino».

Le preoccupazioni delle detenute riguardo il disinteresse di una certa politica appaiono più che fondate. I programmi elettorali delle principali forze politiche non dedicano molto spazio alla questione carceraria.

Il centrodestra (Fratelli d’Italia – Lega – Forza Italia) si limita a promettere – com’era d’altronde prevedibile – una «maggiore attenzione alla polizia penitenziaria e accordi con gli stati esteri per la detenzione in patria dei detenuti stranieri».

Il Partito Democratico si concentra sul lavoro penitenziario in Italia. Per i dem «il carcere deve diventare un luogo dove intraprendere percorsi formativi mirati e garantire sbocchi occupazionali certi». Viene anche menzionata la necessità di destinare “quote significative di fondi per assicurare supporto psicologico».

L’alleanza Verdi – Sinistra Italiana vuole «ridurre il sovraffollamento e migliorare la qualità della vita delle persone detenute». Fratoianni e Bonelli chiedono un «miglioramento della qualità di preparazione del personale penitenziario adibito alla custodia a qualsiasi livello gerarchico», e il pensiero va alle violenze di Santa Maria Capua Vetere. Un’altra proposta consiste in «un nuovo regolamento che preveda più possibilità di contatti telefonici e visivi».

Azione e Italia Viva promuovono un «rafforzamento del sistema dell’esecuzione penale alternativa alla detenzione in carcere». Per contrastare il sovraffollamento raccomandano «interventi di riforma dell’ordinamento penitenziario e di edilizia carceraria». Renzi e Calenda chiedono, inoltre, l’approvazione di una nuova legge sulle detenute madri per non avere più bambini in carcere.

Unione Popolare propone una «riforma dell’istituto della detenzione soprattutto per i reati minori, attraverso un più ampio utilizzo delle misure alternative e investimenti nel reinserimento sociale dei detenuti».

Nessun riferimento alla situazione degli istituti penitenziari, invece, nelle tredici pagine del programma elettorale del Movimento 5 Stelle.

Tra le proposte dei partiti politici una attuabile subito, con una ricaduta diretta sul benessere psicofisico delle persone recluse, è quella dei contatti telefonici. Il regolamento penitenziario al momento concede una telefonata a settimana per soli dieci minuti. Un limite superabile, come segnala l’Associazione Antigone che dal 1991 si occupa di giustizia penale, carceri, diritti umani e prevenzione della tortura.

In seguito alle rivolte del marzo 2020, figlie dell’emergenza sanitaria, il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) fece arrivare negli istituti oltre mille telefoni e tablet, consentendo ai detenuti di videochiamare i familiari ben oltre i dieci minuti settimanali previsti.

Antigone chiede l’adozione di misure simili per prevenire i suicidi, citando a sostegno della propria richiesta la relazione finale sulle rivolte del 2020 presentata dalla Commissione ispettiva del Dap.

Il gruppo di esperti, presieduto dall’ex procuratore Sergio Lari, è arrivato alla conclusione che a provocare le proteste non fu una cabina di regia criminale, ma la sospensione dei colloqui in presenza con i familiari.

In un’intervista a Redattore Sociale l’attivista e giurista Patrizio Gonnella, presidente di Antigone dal 2005, ha chiamato direttamente in causa l’esecutivo. «Sappiamo che il governo può solo fare atti di ordinaria amministrazione. Ma allargare con un atto amministrativo il diritto alle telefonate si può fare. Una telefonata, in un momento di disperazione, può salvare una vita. Ci rivolgiamo al ministro perché solleciti una disposizione regolamentare di questo tipo e alle forze politiche non di maggioranza perché non si oppongano».

Il diritto all’affettività, per quanto impopolare o comunque di scarso interesse da un punto di vista elettorale per molte formazioni politiche, è un tema fondamentale se si vogliono preservare le vite delle persone ristrette.

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