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I colpi di stato: una tradizione americana

L'invasione del Campidoglio è stata un tentativo di colpo di stato senza precedenti nella storia americana? Non proprio: almeno a livello dei singoli Stati, i golpe per sovvertire con la forza l'esito delle elezioni sono una tradizione americanissima

TOPSHOT - Supporters of US President Donald Trump protest in the US Capitol Rotunda on January 6, 2021, in Washington, DC. - Demonstrators breeched security and entered the Capitol as Congress debated the a 2020 presidential election Electoral Vote Certification. (Photo by SAUL LOEB / AFP) (Photo by SAUL LOEB/AFP via Getty Images)

Accanto alla tradizione del passaggio pacifico dei poteri, c’è anche quella della violenta rimozione di un governo legittimo – si può dire che gli Stati Uniti abbiano entrambi questi elementi nel loro DNA politico. Sin dalla loro nascita, infatti, gli USA si sono posti il dilemma del come conciliare l’anima insurrezionale di figure come il rappresentante della Virginia Patrick Henry, quello dello slogan “Give me liberty or give me death” che si rifiutò di approvare la Costituzione, con l’anima istituzionale di un’élite economica mercantile o agraria che invece vedeva la stabilità della repubblica romana come un’ideale a cui aspirare.

Ma quest’amalgama a volte può impazzire, come abbiamo visto con l’assalto al Capitol Hill dei rivoltosi di estrema destra istigati  da un comizio del presidente Donald Trump che chiedeva loro di “mostrare la nostra forza ai senatori e ai deputati”. E così è stato fatto: la folla ha assaltato il Campidoglio. È stata la prima volta che l’hanno fatto dei cittadini americani – l’unico precedente risale al 1814 quando i britannici avevano costretto alla fuga il governo del presidente James Madison, riparato in una piccola cittadina del Maryland, e avevano incendiato la libreria del Congresso, bruciando tremila volumi. 

Senza arrivare a tanto, almeno a livello dei singoli Stati irruzioni così nei palazzi del potere non sono nuove – sono già avvenute altre volte, con conseguenze gravissime. A partire dal Rhode Island: nel 1842 Thomas Wilson Dorr, politico e attivista per il suffragio universale, decise di fare un colpo di mano per bypassare l’opposizione dell’elite rurale all’estensione del diritto di voto. Si fece così votare da un’ autoproclamata “assemblea popolare”, protetta da una milizia di cittadini di origine irlandese che per la prima volta potevano votare. Nel frattempo, in parallelo, veniva inaugurato il governatore legittimo Samuel Ward King, che dopo alcuni mesi di coabitazione dichiarò la legge marziale e fece arrestare il suo oppositore. 

Ma è con la guerra civile che inizia quella breve stagione di rimozione extralegale degli eletti. Il primo esempio è la secessione stessa – assolutamente illegale e non prevista in quelle forme che vennero scelte, dove le élite schiaviste convocarono assemblee a loro favorevoli per staccarsi in fretta dal Paese. Se in Georgia i voti vennero aggiustati a favore della secessione, in Texas andò diversamente: il governatore Sam Houston era un arcinemico della secessione e rifiutò di giurare fedeltà alla Confederazione sudista. Per questo la legislatura statale decise di rimuoverlo il 15 marzo 1861, nonostante avesse messo in guardia che il Nord si sarebbe mosso contro il Sud con “la fredda determinazione di una valanga”. Houston si piegò e accettò il suo destino. 

Così non fece Abraham Lincoln, presidente eletto degli Stati Uniti, quando vide che la South Carolina aveva deciso di staccarsi dall’Unione insieme ad altri dieci stati. Il presidente uscente James Buchanan si rifiutò di intervenire e toccò a Lincoln, dopo l’inaugurazione, dichiarare lo stato d’insurrezione in seguito all’attacco a Fort Sumter, una base militare federale in territorio sudista.

È poi nel dopoguerra che le milizie bianche del Sud cominciano a usare le armi per sovvertire l’esito delle elezioni in cui neri e bianchi poveri avevano finalmente conquistato il diritto di voto. È ciò che avviene nel 1874 quando una folla aizzata dalle milizie della White League occupò la legislatura statale a maggioranza repubblicana, ritenuta colpevole di aver proclamato la vittoria del Repubblicano William Pitt Kellogg sul candidato Democratico (e segregazionista) John McEnery in un’elezione contestata. L’intervento della polizia cittadina, comandata dall’ex generale confederato James Longstreet, non potè fermare la folla che rimosse alcuni legislatori afroamericani sostituendoli con dei bianchi.

Un altro esempio, ancora più calzante e più simile ai fatti dell’altroieri, risale al 1898. In North Carolina avviene un vero e proprio golpe: la vittoria di un governatore sostenuto da una coalizione di repubblicani e populisti di sinistra viene rovesciata tramite un attacco militare con fucili e mitragliatrici condotto dai paramilitari delle Red Shirt.  L’attacco viene organizzato attraverso le colonne dei giornali segregazionisti News & Observer e Wilmington Messenger con un proclama intitolato “La dichiarazione d’indipendenza dell’Uomo Bianco”. Tra gli obiettivi non a caso non c’è solo la comunità afroamericana e la residenza del governatore neoeletto, ma anche il giornale rivale, il Daily Record, diretto da due afroamericani. L’attacco fece circa 300 vittime e rimpiazzò il risultato elettorale con il volere di un’élite politica che mal sopportava l’essere stata deposta da una coalizione multirazziale. Riecheggiando parole d’ordine che purtroppo abbiamo risentito di recente, articoli ed editoriali segregazionisti sostenevano che la concessione del voto ai neri era stata “un crimine”.

Per ultimo, un caso recente. Lo scorso anno, ad ottobre, l’FBI aveva annunciato di aver sventato il rapimento della governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, odiata dagli estremisti per le limitazioni che aveva imposto durante il lockdown primaverile. Anche in quei giorni c’era stata un’invasione armata del Campidoglio (del Michigan) per fortuna senza conseguenze. Pur rifuggendo da analisi superficiali ed affrettate, non si può non notare come l’orientamento politico della rivolta cambi la visione delle cose. E anche esponenti minoritari di partiti a parole professano “legge e ordine” possono essere fin troppo indulgenti con manifestazioni di piazza con obiettivi eversivi e violenti.

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