I disturbi alimentari sono un problema più serio di quanto crediamo | Rolling Stone Italia
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I disturbi alimentari sono un problema più serio di quanto crediamo

Si pensa che i disturbi alimentari siano solo una fase, condizioni che potrebbero passare con un po’ di forza di volontà, mangiando un po’ di più o un po’ meno. Il messaggio che deve essere diffuso, invece, è che si tratta di patologie complesse, specchio di una grande sofferenza

I disturbi alimentari sono un problema più serio di quanto crediamo

Foto di Annette Riedi via Getty Images

Da quasi quarant’anni, le associazioni che offrono assistenza a chi soffre di disturbi del comportamento alimentare (DCA) lottano per ottenere un maggiore riconoscimento da parte delle istituzioni e della società.

«Viene data sempre particolare data all’anoressia, quindi in quei casi in cui il disturbo è conclamato ed evidente», spiegano Melissa Panero, vicepresidente dell’associazione Libenter, e Rachele Ceschin, psicologa e co-fondatrice dell’associazione. «Rimangono invece troppo spesso sullo sfondo quelle condizioni non sempre visibili: pensiamo per esempio alla bulimia o al disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder o BED), a cui il sistema sanitario nazionale non riesce a risponde a causa delle lunghe liste d’attesa finché le condizioni cliniche peggiorano al punto da creare dei deficit anche a livello organico e il disturbo alimentare ha preso vita propria», aggiungono le esperte.

In Italia, infatti, i punti deboli del sistema sanitario pubblico sono evidenti: dall’elenco delle strutture che si occupano della diagnosi e della cura dei disturbi del comportamento alimentare pubblicato dall’Istituto Superiore di Sanità emerge che i centri pubblici sono circa un centinaio e sono concentrati nel Nord Italia. Le strutture che offrono riabilitazione residenziale, ovvero il trattamento fisico, nutrizionale, psicologico e psichiatrico necessario quando la malattia è più grave, sono meno del 20%. I centri che offrono il ricovero diurno (day hospital) sono invece più presenti sul territorio, ma i loro servizi sono spesso insufficienti.

Per tutti questi motivi, lo scorso dicembre la decisione del Senato di riconoscere i disturbi del comportamento alimentare come una categoria specifica nei LEA (livelli essenziali di assistenza) è stata accolta con grande entusiasmo da pazienti, familiari, medici e associazioni. Fino a quel momento, infatti, i servizi legati alla diagnosi e alla cura dei DCA erano assimilati alla categoria della salute mentale e disponevano quindi di minori fondi e autonomia. A questo emendamento si è aggiunta inoltre l’approvazione di un “Fondo per il contrasto dei Disturbi della Nutrizione e della Alimentazione”, aperto a tutte le regioni italiane e con una dotazione di 15 milioni di euro per il 2022 e di 10 milioni per il 2023.

«[Questa decisione] senza dubbio permetterà una maggiore assistenza verso i pazienti, con un ampliamento dei servizi residenziali e riabilitativi dedicati, specialmente nel Sud Italia. Inoltre, possiamo immaginare una diminuzione delle liste d’attesa, che ad oggi spesso sono di mesi», dichiarano le responsabili dell’associazione Libenter di Torino.

Sul piano culturale, tuttavia, la partita rimane aperta, dato che i pregiudizi sulla malattia e su chi ne soffre sono ancora molti e molto diffusi. «Si pensa che i disturbi alimentari siano solo una fase, condizioni che potrebbero passare con un po’ di forza di volontà, mangiando un po’ di più o un po’ meno, a seconda dei casi. Il messaggio che deve essere diffuso invece è che i disturbi alimentari sono patologie, complesse e complicate, specchio di una grande sofferenza, gestita attraverso il corpo e il cibo», spiega Rossella Oliva, psicoterapeuta e presidente dell’Associazione Disturbi Alimentari Mestre (ADAM).

«Non si tratta poi di disturbi che riguardano esclusivamente gli adolescenti», aggiungono Panero e Ceschin dell’associazione Libenter. Già cinque anni fa, infatti, la psicoterapeuta Laura Dalla Ragione, direttrice della Rete per i Disturbi del Comportamento Alimentare della USL 1 dell’Umbria, affermava che «negli ultimi dieci anni si è abbassata in modo vistoso l’età di insorgenza dei disordini alimentari, con esordi frequenti a 8-10 anni. La patologia non riguarda più solo gli adolescenti, ma va a colpire anche bambini in età prepubere, con conseguenze molto più gravi sul corpo e sulla mente».

E non si tratta neanche di disturbi che colpiscono solamente la popolazione femminile: all’interno dei centri elencati dall’Istituto Superiore di Sanità, gli uomini rappresentano il 10% dei pazienti. La mancanza di rappresentazione di questi pazienti è evidente: «basta pensare alla figura stereotipica dei disturbi alimentari, una ragazza bionda magrissima che si guarda allo specchio, per recepire come gli uomini siano meno rappresentati socialmente quando si tratta di una sofferenza che coinvolge il corpo e il cibo», spiegano le professioniste dell’associazione Libenter.

A questo stereotipo se ne sommano altri che contribuiscono a rendere sempre più invisibili i pazienti. Infatti, «molti sintomi rappresentativi della sfera maschile, ad esempio la selettività dei cibi riconducibile alla vigoressia, rinforzano l’ideale di uomo muscoloso, magro ed efficiente. In più, gli uomini tendono anche a far più fatica delle donne a chiedere aiuto e spesso arrivano con una gravità sintomatologica maggiore», affermano le esperte.

Infine, dai disturbi del comportamento alimentare spesso si guarisce, è vero, ma quasi mai da soli o da sole. «Nella maggior parte dei casi è necessaria una presa in carico professionale, meglio ancora se l’intervento è svolto da un’équipe multidisciplinare. Prima si chiede aiuto e maggiori saranno le probabilità di una guarigione rapida», aggiungono Panero e Ceschin.

Lo dimostra la storia di Veronica Rossetti, che dopo aver sofferto di anoressia è diventata volontaria dell’associazione Libenter. «La consapevolezza di essere afflitta da un disturbo dell’alimentazione è arrivata molto dopo rispetto a quando effettivamente l’ho vissuto. Mentre lo vivevo mi sembrava la normalità. La mia famiglia ha provato ad aiutarmi, ma io pensavo stessero esagerando e non li ascoltavo. Quando ho iniziato a reagire, ho cercato di informarmi soprattutto tramite i libri. Poi ho iniziato un percorso di guarigione supportata da una psicoterapeuta», racconta Rossetti.

«Credo nell’importanza della prevenzione e penso che si dovrebbe dare più spazio nelle scuole a counselor, psicoterapeuti, educatori, volontari che possano guidare gli studenti verso una maggiore consapevolezza non solo di questi temi, ma anche di molti altri, ognuno con le sue competenze specifiche», aggiunge la volontaria di Libenter, un’associazione che è molto presente nelle scuole e nelle associazioni culturali piemontesi.

Allo stesso tempo, Rossetti segnala che anche i social network possono dare una mano nel sensibilizzare nei confronti di queste malattie. «Su Instagram o Youtube ci sono molte ragazze o professioniste che stanno cercando di far passare il messaggio che non esiste un cibo sbagliato o un corpo migliore o peggiore ma che è importante perseguire il proprio benessere fisico e mentale che è soggettivo», spiega la volontaria.

Altre professioniste, come la presidente dell’associazione ADAM, sono della stessa opinione. «I social media possono essere degli strumenti preziosi per lavorare a livello preventivo e avvicinare le persone alla cura. Nel parlare di disturbi alimentari molto spesso si fa riferimento all’impatto dei fattori ambientali nello sviluppo e nel mantenimento di queste patologie, e in particolare dei messaggi dannosi che derivano dal nostro contesto culturale (ad esempio, enfasi della magrezza, diet culture, stigma legato ai corpi). Un passo importante viene fatto da chi, quotidianamente, si inserisce in quelle realtà per diffondere un’informazione adeguata, sensibilizzare le fasce più a rischio, creare spazi dove confrontarsi e sfatare visioni e modelli falsi e dannosi», dichiara la dottoressa Oliva.

Ma la strada da fare per far comprendere al meglio la complessità di questi disturbi rimane ancora lunga e passa per un altro tassello fondamentale: la consapevolezza dei genitori. «Per noi esseri umani la relazione passa attraverso il cibo fin da piccolissimi, pensiamo ad esempio alle lotte per cosa e quanto mangiare, e proprio per questo sono i genitori e i futuri genitori i primi a necessitare di adeguati strumenti preventivi», concludono le esperte di Libenter.