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Hong Kong, Cile, Libano: il virus non ha fermato le proteste, le ha solo messe in pausa

Il 2019 è stato un anno di sollevamenti, rivolte e cortei ovunque nel mondo. La pandemia ha interrotto questa stagione, ma ci sono buoni motivi per credere che sia solo temporaneo

Sam Tarling/Getty Images

Si circola a targhe alterne in Libano, come quando a Roma o Milano l’inquinamento sale oltre i limiti. È una misura che serve a limitare gli spostamenti della popolazione in tempi di pandemia. Se non fossero anche tempi di rivoluzioni, sospese dalla malattia. È a targhe alterne anche la contestazione adattata all’emergenza sanitaria. In due giorni diversi, a seconda del numero di immatricolazione, centinaia di auto hanno sfilato la settimana scorsa a Beirut, con i finestrini abbassati, le bandiere bianche e rosse con il cedro nel mezzo, tra il frastuono dei clacson. La protesta che a ottobre ha attraversato il paese, contro la corruzione della classe politica, la sua inettitudine, contro la crisi economica, non è stata soddisfatta da un cosmetico cambio di governo.

Non si sa chi per primo abbia pensato che manifestare in auto fosse una buona idea. In America ormai accade un po’ ovunque. Le chiamano manifestazioni drive-through, e tra bandiere confederate e SUV è soprattutto la destra populista a essersi appropriata del format, per protestare contro le misure di isolamento e la chiusura di commerci e aziende. Per contrastare la proposta del partito conservatore al governo in Polonia di limitare il diritto all’aborto, membri di gruppi femministi hanno bloccato pochi giorni fa una strada centrale di Varsavia con le loro automobili. E hanno manifestato sui balconi, diventati qui e altrove luogo del dissenso nell’era della pandemia.

In spagnolo si chiama cacerolazo, in portoghese panelaço quella protesta corale e rumorosa che consiste nello sbattere casseruole, pentole e padelle l’una contro l’altra. In questo caso stando alle proprie finestre. I brasiliani lo hanno fatto per lamentarsi del negazionismo del presidente Jair Bolsonaro, che per giorni ha minimizzato la minaccia del virus e rifiutato la chiusura. Ad adattare il dissenso all’emergenza sanitaria sono stati anche gli israeliani, che hanno messo in scena a Tel Aviv, in un luogo iconico della contestazione, piazza Rabin, la prima protesta in cui i partecipanti, duemila e fermi su segni tracciati sull’asfalto, hanno mantenuto tra loro due metri di distanza.

La malattia ha interrotto una stagione eccezionale di contestazioni. Il 2019 è stato un anno di sollevamenti, rivolte e cortei ovunque nel mondo: Hong Kong, il Cile, l’Iraq, l’Algeria, il Libano sono soltanto alcuni dei 114 paesi in cui milioni di persone sono scese in strada contro governi corrotti, autocrati fuori tempo massimo, regimi anacronistici, incapaci o brutali. Se l’emergenza sanitaria ha messo fine ai cortei, la crisi economica innescata dalle chiusure imposte per evitare la diffusione del Covid-19 ha ingigantito le frustrazioni soprattutto economiche di chi già protestava. E ha reso più profonde le disuguaglianze sociali, sottolineate in molti luoghi dal divario nell’accesso ai servizi di sanità.

La diffusione del coronavirus ha per esempio interrotto le manifestazioni di piazza in Libano, ma non ha cancellato la rabbia della popolazione. Al contrario. E così, tra lunedì e martedì, la contestazione ha abbandonato le precauzioni sanitarie, il distanziamento sociale e lo spirito di adattamento dei cortei in automobile. In diverse città del paese, al calar della sera, centinaia di persone di sono riversate nelle strade e si sono scontrate con l’esercito. Quello che accade in queste ore tra Beirut e Tripoli, dove i cittadini sono disposti a rischiare la propria salute pur di scendere in strada contro l’incapacità della classe politica a trovare soluzioni a una crisi economica sempre più profonda, e alla povertà sempre più reale, anticipa probabilmente simili scenari altrove.

“Ci sono forti ragioni per credere che quando la crisi sanitaria si sgonfierà, ci sarà una nuova ondata di proteste globali, forse anche maggiore in scala e conseguenze politiche”, ha scritto il Center for Strategic and International Studies. “Queste proteste potrebbero svolgere un ruolo determinante nell’imporre agende nazionali e globali dopo il COVID-19. O potrebbero semplicemente aumentare il disordine in cui si trova oggi il mondo”.

Benché l’hirak, il movimento rivoluzionario algerino, abbia interrotto dopo un anno i venerdì di protesta proprio a causa del virus, il regime non ha messo fine alla repressione. In Iraq, invece, i giovani continuano a sfidare le restrizioni imposte dalle autorità e a scendere in piazza. A Hong Kong, dove la diffusione della malattia è diminuita, sui forum online si discute già di quando tornare a manifestare. In Libano, mentre le proteste hanno già riconquistato le strade, alcuni attivisti e gruppi della rivolta di ottobre si sono incontrati mercoledì per discutere sul futuro della contestazione, per la prima volta dopo l’incursione del virus.

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