Giovanni Mari: 20 anni dopo Genova, «ne siamo usciti tutti sconfitti» | Rolling Stone Italia
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Giovanni Mari: 20 anni dopo Genova, «ne siamo usciti tutti sconfitti»

Il giornalista aveva 27 anni quando ha seguito il G8 per "Il Secolo XIX". A distanza di 20 anni, torna con un libro per raccontare come quei giorni siano stati un fallimento per tutti: polizia, no gobal e grandi della Terra

Giovanni Mari: 20 anni dopo Genova, «ne siamo usciti tutti sconfitti»

Laura Lezza/Getty Images

Sono trascorsi vent’anni dai tragici fatti del G8 di Genova, che segnarono in maniera indelebile un’intera generazione politica condizionando le traiettorie percorse dai movimenti sociali e plasmando in profondità le dinamiche di piazza del nuovo millennio. Tra i cronisti che hanno avuto la possibilità di seguire in presa diretta gli eventi che scandirono “la più grande sospensione dei diritti umani in un Paese occidentale dai tempi della seconda guerra mondiale” – la morte di Carlo Giuliani, la trasformazione della Diaz in una “macelleria messicana”, i pestaggi di Bolzaneto – c’era anche il giornalista genovese Giovanni Mari.

All’epoca dei fatti, Mari aveva 27 anni e aveva iniziato a collaborare da poco con Il Secolo XIX, giornale per cui lavora tuttora. Mari ha seguito l’intera preparazione del summit, ma come tanti aveva elaborato tutto troppo velocemente, “a uso e consumo di un’informazione vorace e superficiale”. Oggi, dopo due decenni, ha scelto di ripercorrere tutti gli errori che hanno connotato quell’esperienza e di raccoglierli in un libro, Genova, vent’anni dopo, pubblicato recentemente dalla casa editrice People. Il risultato è un sincero e amaro giudizio di valore che, finalmente, gli ha permesso di osservare serenamente il G8 per ciò che è stato: un colossale fallimento. 

Leggendo il libro è difficile non apprezzare il tuo punto di vista doppiamente interno ai fatti del G8, dato che hai seguito la tre giorni di Genova da cronista del Secolo XIX, un giornale particolarmente sensibile alle dinamiche cittadine. Quali erano gli umori dei genovesi?
Il racconto delle ferite sofferte da Genova è rimasto assolutamente in secondo piano durante tutte le fasi del vertice, prima, dopo e durante il G8. Il popolo genovese ha dovuto subire una violenza psicologica che si è declinata in vari modi e ha finito per stravolgere le più basilari esigenze quotidiane: ho visto cittadini costretti a presentare il passaporto per andare a lavorare, anziani che scavalcavano le grate per rientrare in casa, negozi in fiamme e famiglie che asserragliate nei cortili dei palazzi per evitare di venire manganellate. Questi abusi sono stati accompagnati da una cappa di terrore che ha avvolto Genova già dalle fasi precedenti l’inizio della conferenza: la città è stata trasformata in un fortino interamente militarizzato in cui le regole della democrazia hanno lasciato spazio a un regime differente, fatto di controllo sulle cose e sulle persone. Le notizie fatte circolare dalle istituzioni contribuirono ad esasperare la percezione del pericolo: i partiti invitavano i genovesi a sfruttare quei tre giorni per “andare in vacanza”, mentre il governo non perdeva occasione per avvelenare ulteriormente gli umori della cittadinanza, facendo trapelare di aver chiesto agli ospedali di rifornirsi di un centinaio di sacchi mortuari e di aver fatto spostare dal carcere di Marassi 200 detenuti per poter liberare spazio e effettuare oltre 600 arresti. Una comunicazione gestita nel peggiore dei modi. 

Perché aspettare vent’anni? È un tempo sufficiente per rielaborare quello che è successo?
È stata un’attesa doverosa: non ho mai voluto “fare cassa” grazie al G8, battere il chiodo finché era caldo. Scrivere un instant book sarebbe stata la scelta più ovvia dal punto di vista delle esigenze di mercato, ma non mi avrebbe consentito di riflettere in maniera seria e ponderata su un tema così delicato. Col senno di poi, ho fatto bene a procrastinare: dopo vent’anni, le responsabilità sono state accertate in modo – quasi – definitivo, ed è finalmente possibile giudicare il G8 per quello che è stato: un brutale e insopportabile fallimento di tutti i soggetti in campo.

Potresti specificare questa posizione?
È abbastanza semplice: quella del G8 di Genova è, in primis, una triste storia di irresponsabilità; una malattia che ha fatto sì che chiunque toccasse palla in quell’evento sbagliasse clamorosamente. Naturalmente, più l’attore è un soggetto pubblico e statuale, più il fallimento è grave. Basti pensare al vertice della piramide, gli otto grandi: sono venuti a Genova a fare un vertice che non ha concluso assolutamente nulla di quello che si era prefissato: lotta alla povertà, alle malattie infettive (un fallimento che a sentirlo oggi fa male) e cancellazione del debito dei paesi poveri. A posteriori, il bilancio di ciò che è stato ottenuto sul piano politico è assolutamente misero, per non dire nullo: servì unicamente per rimarcare il consolidamento del nuovo equilibrio mondiale, sancito dall’apertura della Russia. 

Facciamo un passo indietro: ben prima del G8, il livello di tensione in Europa era già piuttosto elevato, caratterizzato da sollevazioni e rimostranze in tutto il mondo, dall’importante precedente del “popolo di Seattle” all’anticamera del disastro, le proteste di Napoli contro il Global Forum dell’Ocse, che in molti hanno definito come una sorta di “prova generale” di sospensione della democrazia. Inoltre, noi tutti ricordiamo il triste epilogo di Carlo Giuliani ma, in realtà, il Movimento rischiava di contare la prima vittima già durante le manifestazioni di Göteborg, quando un manifestante rimase gravemente ferito. Perché, nonostante precedenti così importanti, il governo scelse di non intavolare un dialogo con le varie anime del Genova Social Forum?
L’Italia è arrivata al suo G8 senza la minima preparazione politica: instaurare un contraddittorio con il GSF avrebbe dovuto essere il primo, logico passo da compiere, anche per trasformarlo in una barriera contro i violenti. Questa discussione, purtroppo, non è mai avvenuta per via di un generale immobilismo che ha coinvolto tutto lo spettro politico: il centrosinistra, annebbiato dalle solite lotte intestine, non voleva rischiare di iscriversi nella lista nera dei nemici delle forze dell’ordine; il centrodestra, di contro, si è presentato all’evento con un assetto da tolleranza zero, rendendosi impermeabile alle istanze del movimento. Anche se tutto il governo Berlusconi non pretendeva nient’altro che il pugno di ferro sin dall’inizio, chi si distinse in negativo fu soprattutto l’allora vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini, che alzò come non mai il livello di scontro contro le fantomatiche “zecche comuniste”, una formula utilizzata in modo strumentale che non teneva conto di tutte le anime interne al GSF, che spaziavano dai cattolici agli ambientalisti, dalle femministe alla Banca Popolare Etica, dalla Rete Lilliput alle Suore del Buon Pastore: non esattamente una frangia di violenti. Fini sapeva fin dall’inizio che la sua parte politica avrebbe dovuto sostenere, incoraggiare e proteggere fino all’ultimo, in maniera intransigente, l’operato di poliziotti e carabinieri: non farlo avrebbe significato perdere un prezioso serbatoio di voti. 

Nel libro ti soffermi moltissimo sull’incapacità, da parte dei servizi di intelligenze nazionali e internazionali, di leggere i fatti dei mesi precedenti, quando le piazze erano già esplose.
Alla vigilia di Genova, l’intelligence di mezzo mondo era già informata sul modus operandi dei black bloc: le loro tattiche di guerriglia urbana si erano già manifestate in grande stile a Seattle e poi a Praga, a Montreal, a Nizza e, un mese prima del G8, a Göteborg. Nella primavera del 2001, i servizi segreti consegnarono alla Questura di Genova un documento intitolato Informazioni sul fronte di protesta anti-G8. La precisione delle informazioni contenute nella relazione era decisamente impressionante: specificava in maniera iper-dettagliata il numero di cittadini italiani che avrebbero potuto aderire ai black bloc e la loro provenienza geografica – 35 da Varese, 10 da Aosta, 5 da Perugia, 1 da Vibo Valentia e così via. L’intelligence ha fornito al coordinamento per la sicurezza 1.439 nominativi di persone reputate pericolose ma, nonostante ciò, non è stato fermato nessuno; si è preferito, ancora una volta, utilizzare il pugno di ferro contro il GSF, ordinando perquisizioni nelle case dei portavoce. 

L’estrema destra è addirittura riuscita a infiltrarsi tra i no global.
Esatto, nonostante il documento che ho appena citato segnalasse in maniera chiara i preparativi che la destra stava approntando per riuscire a portare uomini in piazza a Genova. Una svista quasi dilettantistica aggravata dal fatto che, al tempo, il modello culturale e le iconografie di riferimento dei movimenti di destra e sinistra erano nettamente distinguibili, a partire dal modo di vestire: era sostanzialmente impossibile non distinguere un militante di Forza Nuova da un no global.

Il fallimento più evidente, però, rimane quello delle forze di polizia. 
Le forze dell’ordine pagarono lo scotto dell’alternanza politica: si trovarono a dovere eseguire gli ordini di una cabina di comando, interamente nominata dai governi di centrosinistra, ma ansiosa di farsi confermare dal nuovo governo dominato da Silvio Berlusconi che, ribadisco, desiderava nient’altro che il pugno di ferro. La colpa, quindi, non è da imputare ai singoli, ma alla mancanza una regia appropriata: il vertice delle forze dell’ordine ha sbagliato ogni scelta. Non hanno mai chiesto scusa, abdicando a uno spirito di corpo omertoso e riversando sul mondo una marea di bugie che non hanno fatto altro che coprire di vergogna il sistema di sicurezza italiano. Il comando delle operazioni ha interpretato sin da subito il G8 come una specie di campo di battaglia militare, non come un servizio di ordine pubblico: hanno dimenticato la difesa del cittadino, agendo come se si trovassero al fronte. 

Con la fine del G8 di Genova si è dissipata anche la parabola del movimento No Global. Le sue battaglie – acqua bene comune, giustizia sociale, lotta alla criminalità e all’evasione, politiche green – sono ancora estremamente attuali. Perché non è riuscito ad andare oltre, a costruirsi una strada alternativa?
Questo è, probabilmente, l’inciampo più doloroso in assoluto: me siamo usciti tutti sconfitti e siamo tutti arretrati. Portava con sé una piattaforma di contenuti formidabili, dai beni comuni alla lotta alla casta, dalla pace all’accoglienza dei migranti, temi ancora tutti aperti che sarebbero un mirabile programma politico, ma se lo sono fatto scippare dal populismo. Quelle istanze di un mondo migliore sono rimaste al palo, annacquate e disperse. L’esigenza di una lotta alla globalizzazione che stava diventando disumana, sorta su radici progressiste, ha abdicato a una lotta alla mondializzazione che invece si è sviluppata sulla base di un retroterra completamente differente, xenofobo, populista e sovranista. Un dolore acuito dal fatto che, col privilegio del senno di poi, le anime del GSF avevano predetto buona parte delle degenerazioni odierne: avevano ragione loro.