Genova ci ha tolto la parola, ma bisogna continuare a raccontarla | Rolling Stone Italia
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Genova ci ha tolto la parola, ma bisogna continuare a raccontarla

'Se fate i bravi. Genova 2001, il sogno e la violenza', il nuovo documentario di Stefano Collizzolli, mostra la paura che quella settimana ha instillato in una moltitudine di ragazzi e ragazze

Genova ci ha tolto la parola, ma bisogna continuare a raccontarla

“Forse la storia dimostra che i diritti, come ti vengono dati, ti vengono anche tolti”. È una delle prime frasi che si sentono pronunciare guardando Se fate i bravi. Genova 2001, il sogno e la violenza, documentario di Stefano Collizzolli, scritto con Fabio Geda e Daniele Gaglianone, che dopo un passaggio alle Notti Veneziane in settembre, il 7 novembre sarà presentato (anche in streaming) al Festival dei Popoli di Firenze, per poi approdare nelle sale distribuito da ZaLab. Ancora Genova, ancora i cortei contro il G8, ancora Carlo Giuliani, la scuola Diaz e Bolzaneto? Sì, e la ragione sta proprio nelle parole citate sopra, perché in quelle giornate del luglio di 21 anni fa molti giovani e meno giovani hanno compreso qualcosa di importante: non esistono diritti acquisiti una volta per tutte, ci sono diritti conquistati che non bisogna mai smettere di difendere, perché un giorno potrebbero esserci negati.

Proprio com’è successo a Genova nel 2001, quando decine di migliaia di cittadini si sono riversati per le strade contro i grandi della Terra (ossia i capi di Stato delle maggiori potenze industriali, all’epoca Canada, Francia, Gran Bretagna, Germania, Giappone, Italia, Russia, Stati Uniti) riuniti nel capoluogo ligure per decidere delle sorti del pianeta e hanno visto il loro sogno trasformarsi in violenza. Si contestava il modello di sviluppo dominante, quello che spingeva verso una globalizzazione neoliberista, in quanto energivoro e generatore di disuguaglianze e sfruttamento. “Se fate i bravi” parte da qui non per ripercorrere e analizzare per filo e per segno quegli accadimenti, operazione già compiuta tante volte, ma per metterci di fronte a una ferita enorme e ancora aperta e sanguinante: quella subìta da tutti coloro che ai cortei anti-G8 fa erano andati per urlare a gran voce che un altro mondo era possibile e hanno scoperto, invece, che non solo nessuno aveva intenzione di ascoltare le loro istanze, ma che c’era persino chi pur di zittirli era disposto a criminalizzarli e a manganellare, picchiare, torturare, insultare, umiliare, persino uccidere.

È, in particolare, una voce a raccontarcelo, la voce di Evandro Fornasier, che quando arrivò a Genova era un impiegato di banca desideroso di urlare i suoi ideali di uguaglianza e giustizia, e che nel giro di poche ore si ritrovò catapultato in una situazione di orrore: fermato dalle forze dell’ordine senza motivo, fu spinto con un fucile puntato in faccia in un garage sotterraneo, poi portato a Bolzaneto e al carcere di Alessandria e sottoposto, in tutto ciò, a quella che Amnesty International ha definito, in generale, “una violazione dei diritti umani di dimensioni mai viste nella recente storia europea”. Collizzolli, alla regia con Gaglianone, avrebbe potuto adottare una prospettiva più ampia, ma cosa c’è ancora da ricostruire? Sceglie, allora, con gli altri autori, di alternare i ricordi e i filmati di quando, studente universitario, era salito su un treno per Genova con alcuni amici e una telecamera miniDV tra le mani, con la testimonianza di Evandro: da un lato, almeno inizialmente, lo spirito di festa, l’atmosfera da gita in compagnia, la voglia di condivisione; dall’altro, i black bloc lasciati liberi di distruggere, le cariche della polizia, la fuga fallita, il terrore.

È la contrapposizione di due destini che all’epoca, pur vicinissimi, non si erano incrociati: perché a lui e non a me?, sembra essere la domanda di fondo. Ma non c’è risposta, perché la verità è che in quei giorni la ferocia di carabinieri e poliziotti si abbatté indiscriminatamente su chiunque si trovasse al posto sbagliato nel momento sbagliato. Eccola, la ferita mai guarita al centro di “Se fate i bravi”: “Fino a quel momento, per quanto fossi stato un adolescente vivace, rompiballe e cagadubbi, avevo sempre pensato allo Stato come a quella cosa che mi dava in nome di tutti scuola e ospedali – spiega Collizzolli –, che poteva essere pro tempore in mano alle persone sbagliate, ma che in fin dei conti era l’espressione della cura di sé della mia comunità. Tra il 19 e il 21 luglio 2001, invece, ho realizzato che il mio Stato voleva uccidermi”. Accostando due esperienze diverse il documentario mostra, dunque, la paura instillata in quella settimana in una moltitudine di ragazzi e ragazze, uomini e donne – non solo quelli presenti a Genova, naturalmente – e la conseguente sfiducia nelle istituzioni, così come il conseguente disincanto; non è un caso che negli anni successivi sia sia registrato un crescente disimpegno politico.

Ma c’è dell’altro: grazie al focus sulla vicenda di Evandro, Se fate i bravi riesce a evidenziare come in 21 anni nel dibattito pubblico e politico lo sguardo su Genova sia diventato via via sempre più miope, sfocato, indulgente, quasi le violenze di quei giorni fossero semplicemente cose che possono accadere quando c’è trambusto, quando c’è disordine, quando si scende in piazza per dissentire. E lo fa in primis regalandoci le immagini di un incontro, quello tra Evandro e Alfonso Sabella, magistrato con una lunga storia nell’antimafia che qualcuno conoscerà perché dal suo libro “Cacciatore di mafiosi” è stata tratta la serie tv Il cacciatore, al tempo a capo dell’Ispettorato del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e responsabile anche della caserma di Bolzaneto, trasformata per il G8 in struttura carceraria provvisoria. È una scena potente, quella in cui i due si guardano negli occhi, divisi solo da un tavolo: da una parte un uomo che non nasconde quanto rammentare il torto subìto sia tutt’oggi traumatico, doloroso, quasi intollerabile; dall’altra, colui che avrebbe dovuto controllare che quel torto non fosse perpetrato e che, al netto di una condanna a pagare un risarcimento per danno erariale alla Corte dei Conti e pur essendo stato l’unico a essersi opposto all’archiviazione, oggi, di fronte a una delle vittime di quell’abnorme ingiustizia, non riesce a fare altro che continuare a urlare la propria estraneità ai fatti, la propria innocenza, il proprio essere anch’egli vittima di un sistema che non gli ha permesso di difendersi adeguatamente in tribunale.

In sostanza, non riesce a mettersi nemmeno per un attimo da parte, a fare umanamente un passo indietro, a prendersi le proprie responsabilità, a chiedere scusa, ad ammettere che anche se a Bolzaneto non avesse assistito a nulla di strano, dopo quanto avvenuto avrebbe dovuto comunque rinunciare per sempre a ogni carica pubblica. Evandro reagisce sconcertato e da spettatori si resta sconcertati quanto lui, per lui, insieme a lui. Perché il sogno se ne è andato, ma i segni della violenza sono ancora lì ed è persino difficile parlarne. Arricchito dagli interventi di Alessandra Ballerini, allora avvocata per il Genoa Legal Forum, e Gianfranco Bettin, che all’epoca era nel gruppo di contatto tra movimento ed istituzioni, Se fate i bravi è, allora, una riflessione sull’importanza della memoria – “Genova ci ha tolto la parola, ma bisogna continuare a raccontare” –, ma anche una presa d’atto: con Genova l’Italia non ha mai fatto realmente i conti, non nel profondo, basti pensare che nessun governo ha ancora approvato una legge che renda obbligatorio il codice identificativo sulle divise delle forze dell’ordine, basti osservare la frequenza con cui indipendentemente dalla maggioranza al potere si reagisce con lacrimogeni e manganelli anche alle manifestazioni meno pericolose dal punto di vista dell’ordine pubblico. “Dal luglio 2001 ad oggi il mio Stato non ha cambiato idea”, commenta Collizzolli. “Non c’è stata una commissione d’inchiesta parlamentare. Non c’è stata un’assunzione di responsabilità. Per la morte di Carlo Giuliani non c’è stato nemmeno un processo; un GIP ha “escluso una responsabilità a qualunque titolo nella morte” a carico dell’unico imputato. In nessun momento in questi venti anni ho ricevuto un segnale che quello, per lo Stato, è stato un errore, un momento eccezionale. Il segnale è quello opposto: fatti come Genova fanno parte dell’ordinarietà delle cose. Non sono una frattura, una smagliatura nella trama del presente. Di questa sostanza è costituita la maglia, tale è l’ordine delle cose e tale è l’ordinarietà del potere”. Eppure protestare pacificamente è una forma di libertà, è un diritto: come sottolineato in una nota di Amnesty International Italia, che ha patrocinato il film, documentari come questo sono importanti perché ci aiutano a non dimenticarlo.