Gabriele Micalizzi: «Ero convinto che sarei morto» | Rolling Stone Italia
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Gabriele Micalizzi: «Ero convinto che sarei morto»

Intervista esclusiva al fotoreporter di guerra ferito in Siria, che abbiamo incontrato all'Ospedale San Raffaele di Milano dove è ricoverato

Foto Gabriele Micalizzi

“Never never give up”. Non è solo il motto di Gabriele Micalizzi ma anche di Cesura, il collettivo di fotografi di cui fa parte il 35enne ferito nella Siria orientale mentre stava documentando l’ultima offensiva delle truppe curde supportate dagli americani contro lo Stato islamico. E sicuramente Gabriele non mollerà, come ha assicurato nell’intervista che abbiamo realizzato all’ospedale San Raffaele di Milano, dove è ancora ricoverato per proseguire le cure che gli permetteranno di recuperare gran parte della vista da entrambi gli occhi, l’udito dall’orecchio sinistro e due dita di una mano. Sono le conseguenze del razzo Rpg che gli è esploso a un metro e mezzo di distanza – «ma che era diretto a me», ha spiegato il fotoreporter – lanciato dagli irriducibili dell’Isis.

«Ero pronto a morire», ha poi ammesso Micalizzi, non nuovo a esperienze sui fronti di guerra più caldi del mondo: da Gaza alla Libia, dall’Egitto alla Siria. Le sue foto sono state pubblicate anche da Rolling Stone, oltre a New York Times, New Yorker, Newsweek, Wall Street Journal, Stern, Sportweek e, in Italia, da l’Espresso, Repubblica, Internazionale e Corriere della Sera.

Nato nel 1984, milanese cresciuto a Cascina Gobba, si è diplomato Maestro d’arte all’Isa di Monza. Dopo un periodo passato tra Australia e Nuova Zelanda, «vivevo in furgone, dormivo sulla spiaggia», l’incontro con Cesura, poi le Primavere arabe, Tunisia ed Egitto. È l’unico a rimanere a oltranza. Nel 2014 resta segnato dalla morte dell’amico Andrea Rocchelli, detto Andy, anche lui fotoreporter di Cesura, rimasto ucciso da colpi di mortaio nel corso della battaglia di Donetsk, nel Donbass ucraino. «Eravamo molto diversi ma con dei tratti comuni. Lui laureato, più lineare, ma eravamo affini. Siamo arrivati insieme a Cesura. Andy seguiva i Balcani e io il Medio Oriente. Tra noi c’era sana competizione e in Ucraina aveva fatto delle grandi foto. È stato struggente, la sua morte, il funerale, il parlare con la sua famiglia. Era un amico vero».

Ora è toccato a lui, ma è sopravvissuto. Certamente, ha tenuto a precisare, non smetterà di documentare la guerra. Un po’ perché «chi nasce quadrato non muore tondo», e un po’ perché «non lavoro per i giornali, ma per la Storia».

Gabriele, anzitutto come stai?
Adesso sto benissimo, anche se sono tenuto in piedi con lo scotch. Nel breve dovrei riprendermi. Non ho subito ferite così gravi come sembrava, perché mi hanno soccorso le persone giuste al momento giusto.

Ti senti un miracolato?
La verità è che mi hanno mirato. Hanno visto che ero un giornalista occidentale, su un tetto, a 300 metri dalla bandiera dell’Isis che avevo appena fotografato. Poi hanno preso quello di fianco a me. Il miracolo è stato quello. La mia fortuna. Così come avere di fianco altre due militari, fra cui il generale curdo. In più il fatto che stessi fotografando mi ha aiutato, la macchina fotografica si può dire che mi ha salvato la vita. I militari sono stati investiti, io invece ho preso una parte delle schegge. E la macchina fotografica che avevo in mano mi ha coperto il volto. Il giubbotto antiproiettile e l’elmetto hanno fatto il resto. Forse mi mancavano gli occhiali, che avrebbero fatto ulteriormente la differenza. Però volevano prendermi quelli dell’Isis. Il miracolo è che la traiettoria è andata oltre di 20 centimetri sulla mia sinistra.

Non è la prima volta che rischi nel tuo mestiere. È stata la peggiore?
Ho rischiato molto peggio di così, mi è esplosa roba molto più grossa vicino con schegge ben peggiori. Mi sono successe cose più pericolose, solo che questa volta mi hanno preso quasi in pieno. Stavolta sono cambiate le conseguenze di quello che è successo dopo, con il soccorso, i trasporti, insomma si è messa in piedi una macchina di aiuti che mi ha salvato davvero la vita.

Cosa hai pensato mentre eri a terra dopo l’esplosione?
Ero pronto a morire, non avevo problemi. Quando ero a terra ero convinto che sarei morto. Mi sono toccato e ho visto la carne nel braccio sinistro che si staccava, nell’occhio sentivo che c’era un buco e dopo qualche minuto a terra mi aspettavo di morire per dissanguamento veloce. Invece, anche un po’ scocciato dirò la verità, ho messo la mano in tasca per fumare una sigaretta, per stemperare quell’attesa infinita perché mi ero anche un po’ rotto le palle, ma la mano era maciullata, avevo due dita rotte, una situazione tragicomica, e non riuscivo ad acchiappare le sigarette.

Poi cosa è successo?
Due ragazzi curdi mi hanno trasportato su un mezzo blindato, portato a un posto sicuro dove c’era grazie a dio Adam, il security advisor della BBC. In quel momento ero ancora cosciente, poi da quando ha iniziato a medicarmi non ho più sentito niente e mi sono risvegliato nell’ospedale militare americano a Baghdad, in Iraq.

Come si vive sapendo che un’altra persona, il militare curdo, è morta al posto tuo?
A me spiace molto, il ragazzo avrà avuto massimo 20 anni. È un po’ assurdo perché ha preso il razzo al posto mio. Non riesco a spiegarlo emotivamente, è stranissimo e pur essendo molto contento di essere sopravvissuto sono distrutto per lui e la sua famiglia. E anche per il comandante che è rimasto ferito, ci conoscevamo. Ma in guerra è così. C’è chi muore e c’è chi vive. È selezione naturale anche questa.

Eri al seguito dell’esercito curdo e come primo messaggio, appena ti sei ripreso, hai voluto rivolgere un video di sostegno proprio a loro.
Sì, perché stanno facendo un lavoro molto importante, cioè combattendo una guerra che serve anche a noi. Mettono in gioco le loro vite per arginare il terrorismo. Adesso, di tutti i foreign fighters che abbiamo visto scappare nel corridoio umanitario e quelli catturati, dobbiamo occuparci anche noi europei. Non possiamo voltarci dall’altra parte. A livello politico non possiamo lasciare da soli i curdi. Hanno fatto il lavoro sporco e ora vanno aiutati.

Sei tornato in Italia proprio il giorno della caduta dello Stato islamico.
Sembra una beffa, eh? Ma in realtà ho visto cadere tutte le capitali dell’Isis, l’ultima era una delle tante, dopo Sirte, Raqqa e Mosul. Con i giornalisti Fausto Biloslavo e Francesco Semprini avevamo già fatto il nostro lavoro. Ma sai, noi fotoreporter abbiamo la grande pretesa di lavorare non per i giornali, ma per la Storia. Per quello, quando loro hanno deciso di tornare io sono rimasto, volevo andare fino in fondo.

Com’è stato riabbracciare tua moglie Ester e le due figlie?
Bellissimo, perché mi è sempre stata vicina e poi ha organizzato tutto del mio rientro. Le bimbe non le ho ancora viste, aspetto di essere in condizioni migliori. Comunque è bello avere una famiglia e una casa. Ovviamente la mia è una missione, non sono un folle che rischia la propria vita per nulla. Ma anche se ho una famiglia e mi prendo dei rischi è perché credo a fondo in quello che faccio.

Hai avuto tantissimo sostegno, da parte delle istituzioni, così come sui social. Ma, come spesso accade, qualche critica è arrivata proprio perché hai una famiglia a casa.
Bene o male ho dodici anni di esperienza, sono stato su tutti i fronti di guerra negli ultimi dieci anni, ho visto le scene più atroci, mi sono mosso in modo ufficiale e non ufficiale, sono entrato nei Paesi legalmente o attraverso dei contrabbandieri. Tutto ciò per documentare e raccontare delle storie. Chi ha qualcosa da ridire può venirne a parlare direttamente con noi di Cesura, perché siamo disposti ad avere un confronto. Non siamo dei pazzi. Calcoliamo tutti i rischi, però in guerra esistono le variabili e l’incidente è impossibile da prevedere. È come mettersi la cintura sull’aeroplano, non è detto che alla fine serva veramente.

Quattro anni fa è scomparso Andy Rocchelli, tuo amico e collega di Cesura, che come te si trovava su un fronte per documentare le atrocità della guerra. Hai pensato a lui?
Ho rivissuto quei momenti, naturalmente stavolta ero io il protagonista. La situazione, è vero, era la medesima. La mia fortuna è stata che le ferite non erano così gravi e sono riusciti a salvarmi. Ci penso spesso a Andy. Ho un anello dedicato a lui, con scritto sopra “never never give up” e la data di quando è morto. Mentre mi stavano operando mi hanno tagliato l’anello sulla mano destra, ma questo sulla sinistra ho chiesto espressamente che non lo tagliassero. Alla fine me lo hanno fatto trovare in stanza pulito dal sangue. Diciamo che quel talismano ha funzionato, ho questa illusione che lui sia sempre con me, che mi segua e sia parte delle mie missioni.

Ora credi che tornerai in futuro su un fronte di guerra?
Se nasci quadrato non muori tondo. Se faccio quello che faccio è perché sono fatto così. Non cambierò vita. Sicuramente devo riprendermi, dagli occhi ci vedo bene ma devo essere cauto e non vanificare gli sforzi dei medici per prevenire conseguenze peggiori. Ho tanta voglia di fotografare, sono uno stacanovista, ho sempre voglia di fare e già sto chiamando dall’ospedale mille persone per tornare a lavorare. Sono fatto così. Al fronte ci tornerò, magari non più lanciandomi a capofitto su ogni cosa che succede, ma cercherò di ponderare di più le situazioni. Ma sicuramente non mollerò. Never never give up.

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