Fenomenologia di Luigi Di Maio, da alfiere dell’antipolitica a Yes Man dell’establishment | Rolling Stone Italia
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Fenomenologia di Luigi Di Maio, da alfiere dell’antipolitica a Yes Man dell’establishment

La trasformazione dell'ex capo politico del Movimento 5 Stelle, da capostipite del turbo-populismo a trazione grillina a trasformista giolittiano pronto a tutto pur di mantenere la poltrona, è finalmente compiuta: benvenuti nella 'dimaiocrazia', dove il compromesso è l'unica vera ragione di Stato

Fenomenologia di Luigi Di Maio, da alfiere dell’antipolitica a Yes Man dell’establishment

Foto di Ivan Romano/Getty Images

In un arco temporale brevissimo – appena 35 anni – Luigi Di Maio ha vissuto tante vite: lo studente fuoricorso ardente di passione politica che trascorreva i suoi fine settimana vendendo Borghetti allo stadio trasformatosi, nel giro di qualche mese, nel vicepresidente della Camera più giovane dell’intera storia repubblicana, seguendo un arco di trasformazione talmente radicale da fare invidia ai romanzi di formazione più blasonati; l’enfant prodige dei primi meet-up del Movimento 5 Stelle, abile al microfono e capace di rassicurare la “base” con i suoi toni pacati e rassicuranti; il maggiore azionista del governo più a destra della storia repubblicana, kingmaker del primo approdo di Giuseppe Conte alla presidenza del Consiglio; il fautore del reddito di cittadinanza e dell’eliminazione della povertà urlata a squarciagola dai balconi; l’improbabile ministro degli Esteri inciampato in un compito decisamente più grande di lui (un risultato non da poco per uno che, fino a non troppo tempo fa, associava Pinochet al Venezuela e cuciva addosso al presidente cinese, Xi Jinping, l’adorabile nomignolo “Ping”); e, in ultima istanza, la sua evoluzione più sorprendente: il campione del mondo del compromesso, lo stratega capace di ordire trame complessissime e di guadagnarsi, sempre e comunque, la propria continuità politica, sfoggiando un’abilità trasformista talmente giolittiana da fare invidia al Pier Ferdinando Casini dei tempi d’oro.

È questa la fase finale del bildungsroman dimaiano: quella di un dissidente anti-sistema che ha mutato pelle a ha scelto di conformarsi in toto alle logiche della cooptazione. Il risultato? Oggi Di Maio lo incarna alla perfezione, quel sistema. Le ultime mosse dell’ei fu “bibitaro” di Pomigliano d’Arco (come lo etichettavano in maniera un po’ classista i suoi detrattori) dimostrano che la metamorfosi è finalmente compiuta: da alfiere del populismo a trazione grillina a Yes Man dell’establishment, disposto a tutto pur di mantenere quella poltrona che, fino a qualche anno fa, sembrava quasi disprezzare, identificandola come la referente empirica di tutti i tic, i malcostumi e i privilegi di una classe politica irrimediabilmente corrotta.

La verità impronunciabile (ma sotto gli occhi di tutti) è che, oggi, Di Maio ha cambiato casacca e ama alla follia crogiolarcisi, in quel privilegio: l’uno vale uno è soltanto un lontano ricordo, perché «io so’ io» e voi, beh, lo sapete.

La dimostrazione compiuta di questo assioma è arrivata dalla polemica che, in settimana, ha scosso i fragili equilibri pentastellati: il dardo avvelenato del divieto del doppio mandato, uno dei marchi di fabbrica del Movimento 5 Stelle, al contempo, una delle più grandi contraddizioni della burocrazia grillina delle origini. Sulla carta sarebbero tutti d’accordo, ma dopo il clamoroso crollo alle elezioni comunali la discussione su uno dei capisaldi dell’ex ‘non partito’ (ora, almeno nella concezione dimaiana, il più partito di tutti) è diventata il terreno di polemiche e reciproche accuse.

Le posizioni sono chiare: per il capo politico del Movimento, Giuseppe Conte, la regola deve essere mantenuta; dello stesso avviso anche il “garante” Beppe Grillo,  secondo cui il divieto del doppio mandato svolge una funzione essenziale, poiché consentirebbe di «prevenire il rischio di sclerosi del sistema di potere, se non di una sua deriva autoritaria, che è ben maggiore del sacrificio di qualche (vero o sedicente) Grande Uomo».

Dal canto suo Di Maio, che non è diposto ad alcuna concessione sulla prosecuzione della sua carriera politica, ha opposto alla fermezza dei due leader delle supercazzole retoriche da Guinness dei primati: «Invito gli iscritti a votare secondo i principi fondamentali del Movimento», ha detto all’indomani del crollo delle amministrative, «li invito io, perché questa è una forza politica che si sta radicalizzando all’indietro».

Folgorato sulla via di Damasco, il buon Luigi sembra aver finalmente compreso che un movimento politico, per poter sperare di sopravvivere in parlamento con le regole della democrazia rappresentativa, deve affrontare lo scomodo nodo della leadership: una discussione insabbiata a lungo che, oggi, rischia di dare il benservito a quasi un terzo dei circa 230 parlamentari rimasti (sui poco meno di 340 di inizio legislatura).

Così, il più giovane vicepresidente della Camera della storia, poi diventato vicepremier, ministro del Lavoro e due volte ministro degli Esteri, dovrà sfoggiare ancora una volta le sue spiccate doti politico-camaleontiche per non rischiare di abbandonare la politica ad appena 36 anni. Da questo punto di vista, il dibattito sull’invio delle armi in Ucraina è la certificazione definitiva dello strappo: la posizione di Di Maio, contrario alla risoluzione preparata dai senatori del Movimento 5 Stelle (e che sarà votata domani) più vicini all’indirizzo originario, è la prova che avvalora il nuovo archetipo incarnato dall’ex capo politico del Movimento 5 Stelle: difensore dell’indirizzo di Mario Draghi a oltranza, fedelissimo fino alla fine alla ragion di Stato di quella classe politica che, a parole, avrebbe dovuto abbattere. Per il ministro che affronta da vicino lo spettro della disoccupazione, la soluzione è solo una: la fuga. Non a caso, negli ultimi giorni si parla con insistenza della creazione di un “Polo riformista”, diretto da Beppe Sala, che potrebbe diventare la nuova casa dei transfughi di diversi schieramenti politici eccessivamente allineati alla Russia, da Mara Carfagna a Maria Stella Gelmini fino, appunto, a Di Maio.

A questo punto, la domanda sorge spontanea: com’è possibile che il volto per antonomasia della democrazia “vaffa” in salsa Casaleggio Associati sia diventato il garante del sistema? La risposta la si può trovare in un breve brano di Un amore chiamato politica, la sua autobiografia pubblicata da Piemme qualche mese fa. A un certo punto, il ministro dedica qualche riga al ricordo di Antonio Cassese, un suo docente del liceo classico di Pomigliano d’Arco, il quale l’ha «educato ad avere rispetto per le istituzioni e per lo stato». Che dire: missione compiuta. Il sottotesto del suo prossimo libro potrebbe essere questo: «Breve storia dell’uomo che voleva rivoltare il Parlamento come una scatoletta di tonno e che, alla fine, è diventato il tonno». Insomma, benvenuti nella ‘dimaiocrazia’, dove ogni momento è quello giusto per una bella stretta di mano.