Facciamo finta che il coronavirus non ci sia e parliamo di privacy | Rolling Stone Italia
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Facciamo finta che il coronavirus non ci sia e parliamo di privacy

Per superare l'emergenza si sta cominciando a parlare di "sospendere le norme sulla privacy". Ma sono discorsi pericolosi e le misure d'emergenza, finita l'emergenza, tendono a restare

Facciamo finta che il coronavirus non ci sia e parliamo di privacy

Scott Barbour/Getty Images

Bisogna parlare di quello che sta succedendo facendo finta che non stia succedendo. Immaginiamo per un attimo che il grosso elefante nella nostra stanza, la pandemia di coronavirus, non ci sia. Ora che la stanza è diventata più spaziosa, ci stropicciamo gli occhi e ricalibriamo la vista: notiamo che ci sono ancora un sacco di cose importanti attorno a noi.

Quindi, ricapitolando. Bisogna parlare di privacy. Il governo sta cercando di capire come arrestare il contagio e, tra le ipotesi vagliate, c’è il cosiddetto contact tracing: risalire, tramite i dati forniti dai nostri cellulari, agli spostamenti delle persone. Sapere dove vanno, chi incontrano, dove si fermano, dove hanno fatto acquisti, in modo da individuare le catene del contagio e fermarle.

Ok, diranno in molti: è giusto, anzi necessario, comprimere la privacy per superare l’emergenza. Lo penso anche io. Ma con accortezza, e la giusta dose di sospetto. E invece la questione del contact tracing viene spesso presentata dai suoi sostenitori in questi termini, o simili:

Qualcun altro, come il governatore del Veneto Luca Zaia, si spinge ancora più in là, dicendo che “bisogna sospendere in tutta Italia le norme sulla privacy”. Sicurezza o privacy, insomma. Delle due, una soltanto. Ma si tratta di una retorica semplicistica, fondata sulla cosiddetta “falsa alternativa”. Un frame ideologico – o con noi o contro di noi – che, oltre a essere falso, nasconde dietro di sè diversi rischi e problematiche. 

Come ha raccontato Luca Sofri sul suo blog, “la paura è il principale incentivo alla richiesta di maniere forti, di regimi autoritari, di limitazioni delle libertà individuali in favore di regolamentazioni e interventi più severi”. Per anni c’è chi ha aizzato contro una paura immaginaria. E poi è arrivata. Una paura vera. E questa cosa sta generando “quote di naturale, reale, motivato fascismo in tutti: intolleranza estrema e richieste di repressione verso chi esce di casa, con punte di giustizia fai da te e fanatismo tra il ridicolo e l’inquietante”.

Come il governatore della Campania Vincenzo De Luca (e tutta la schiera di sindaci che minacciano la popolazione con battute vecchie di settimane), ad esempio, che grazie ai suoi metodi è diventato un meme perfino oltreoceano. Oppure l’app appena inaugurata a Roma per segnalare gli assembramenti che vedi in giro per la città. Lo so, è un accostamento prevedibile, ma viene in mente quella puntata di Black Mirror.

Restrizioni come quelle che stiamo subendo adesso non ci sono mai state, nemmeno durante la dittatura. E anche se a qualcuno suonerà strano, le stiamo rispettando. Perché è giusto così. Su tutte le persone fermate dalle autorità ogni giorno, appena il 4,4% è stato denunciato. Vuol dire che tutti gli altri, il 95%, seguivano un comportamento regolare. Eppure, gran parte della nostra attenzione si focalizza ancora sulle responsabilità individuali su cui scaricare la tensione; le notizie che circolano ingigantiscono una cosa che in realtà è di pochi trasgressori; e i richiami e le minacce di misure ancora più severe si fanno ricorrenti.

Altro argomento a favore dei sostenitori del contact tracing è questo: in Corea del Sud l’hanno fatto e ha funzionato. Ma è un’informazione inesatta. Oltre a quello, in Corea hanno fatto tamponi a tappeto e il contact tracing ha generato anche molti danni. I dati erano anonimi, ma abbastanza dettagliati da risalire alle persone. Persone totalmente incolpevoli sono state diffamate, un manager e la sua segretaria sono stati accusati di avere una relazione, altri hanno subito pesanti offese online, e a volte la diffusione dei dati personali è avvenuta ad opera di funzionari pubblici. In molti si sono lamentati delle conseguenze discriminatorie che si stavano registrando, ma molti altri, invece, ne volevano ancora e chiedevano che venissero condivisi più dati. 

Una strada simile è comunque perseguibile, ma assicurando allo stesso tempo che le norme sulla privacy non vengano azzerate del tutto – soprattutto tenendo conto che i furti informatici sono il crimine che cresce più velocemente negli Stati Uniti. Le aziende sanno cose su di noi che nemmeno noi pensavamo di sapere, ma quando si tratta del governo le cose si fanno molto più inquietanti e l’idea di “non avere niente da nascondere” e quindi non far caso alla privacy è un errore grosso. 

Non c’è bisogno di tornare indietro fino al cliché di 1984 di Orwell per esprimere queste preoccupazioni: basta tornare indietro di un decennio alla vicenda di Edward Snowden. O ascoltare le parole dello storico Yuval Noah Harari qualche giorno fa sul Financial Times: “molte misure prese in emergenze a breve termine diventeranno permanenti. È nella loro natura, nella natura dell’emergenza. Perché ci sarà sempre una nuova emergenza all’orizzonte o la possibilità che quella precedente possa riaffacciarsi”.