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È stata la tornata referendaria più fallimentare di sempre

L'affluenza è stata bassissima, pari al 18,8%, e nessuno dei cinque quesiti ha raggiunto il quorum. Una débâcle dovuta sia alla natura tecnica dei referendum sulla giustizia che all'atteggiamento dei partiti proponenti, Lega e Radicali. In particolare, ha pesato il silenzio di Matteo Salvini

Foto di Piero Cruciatti/Anadolu Agency via Getty Images

La maggior parte degli analisti aveva previsto una bassissima affluenza per la tornata referendaria di ieri e, alla fine, così è stato: nessuno dei cinque referendum sulla giustizia promossi da Lega e Radicali ha raggiunto il quorum del 50% più uno degli elettori potenziali.

I quesiti riguardavano l’abrogazione di una parte della legge Severino (quella relativa alla sanzione accessoria dell’incandidabilità e del divieto di ricoprire cariche elettive e di governo in seguito a una condanna definitiva); il secondo proponeva di limitare i casi in cui è possibile ricorrere alle misure cautelari in carcere; il terzo rifletteva uno dei cavalli di battaglia della Lega, ossia la separazione delle carriere dei magistrati e l’obbligo di scelta tra funzione giudicante o requirente all’inizio della loro carriera; il quarto proponeva di estendere anche ai membri “non togati” (esperti di diritto, avvocati) la possibilità di giudicare l’operato della magistratura; e, infine, il quinto puntava a eliminare l’obbligo della raccolta di firme per la candidatura al CSM.

L’affluenza è stata bassissima, pari al 18,8%. Le poche persone che si sono recate alle urne hanno manifestato una volontà di cambiamento: il Sì, infatti, si è imposto in tutti e cinque i quesiti, ma il mancato raggiungimento del quorum rende questo risultato sostanzialmente inutile.

I motivi del fallimento dei referendum abrogativi sulla giustizia sono facili da intuire: il primo riguarda la natura stessa dei quesiti, che proponevano di intervenire su materie molto tecniche e nei confronti delle quali l’opinione pubblica ha spesso manifestato uno scarsissimo interesse; il secondo, invece, ha a che fare con la scarsa promozione da parte dei partiti, a partire dagli stessi proponenti. In particolare, ha pesato il silenzio di Matteo Salvini, che dopo aver fatto della separazione delle carriere uno dei marchi di fabbrica della sua campagna elettorale ha scelto di defilarsi – un atteggiamento remissivo che, probabilmente, è da ricollegare agli sviluppi della guerra d’aggressione russa in Ucraina, evento che ha finito per imporsi al primo posto nell’agenda del segretario leghista e che, recentemente, lo ha portato al centro di diverse polemiche legate ai suoi ambigui rapporti con Mosca. Un fare disinteressato che è stato sottolineato anche dalla senatrice dei Radicali Emma Bonino, che ha fatto notare come il leader del Carroccio non abbia contribuito a rilanciare a sufficienza il tema: «Il coinvolgimento di Salvini è arrivato in corsa su un’iniziativa del Partito Radicale, ma, raccolte le firme, sembra ora non gli interessi più la buona giustizia. Mi pare sia più interessato a mettere in discussione le scelte di Draghi e a correre in soccorso dell’amico Putin – diciamo che il garantismo e la simpatia per quei regimi dove la libertà dei cittadini è annichilita sono un po’ in contraddizione – e i Referendum non siano la priorità», ha dichiarato lo scorso 9 giugno.

La debacle referendaria, quindi, rappresenta l’ennesimo smacco subito da un leader in caduta libera: la sua faccia rimarrà associata a un’iniziativa incomprensibile e confusa. E nemmeno a costo zero: si è calcolato che l’election day sull’intero territorio nazionale è costato circa quattrocento milioni di euro.

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