Dopo il virus e il lockdown, com'è la situazione nelle carceri italiane? | Rolling Stone Italia
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Dopo il virus e il lockdown, com’è la situazione nelle carceri italiane?

Negli ultimi mesi il mondo carcerario è balzato all’attenzione mediatica, prima per le rivolte e poi per le scarcerazioni. Abbiamo parlato con un portavoce di Associazione Antigone per capire come il sistema si è adattato alla pandemia

Dopo il virus e il lockdown, com’è la situazione nelle carceri italiane?

Durante questi mesi di lockdown il mondo carcerario è balzato all’attenzione mediatica, prima per le rivolte – le più gravi dal dopoguerra – e poi per le misure di scarcerazione, che si prestano sempre a solleticare l’indignazione pubblica. Ma cosa è successo davvero dietro le mura carcerarie? In quanti sono effettivamente usciti? E soprattutto, i mesi appena trascorsi cosa ci dicono su come cambierà – o potrebbe cambiare – l’universo penitenziario? 

Poche settimane fa l’Associazione Antigone ha presentato il suo rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia. Il report è stato aggiornato con gli eventi recenti legati al Covid-19 ma il grosso dei dati era già stato raccolto e metteva in luce due problematiche che influenzeranno gli eventi successivi: il ben noto sovraffollamento e, per converso, la scarsità di alcune figure professionali.

Le carceri italiane sono tra le più affollate d’Europa, con un tasso che si aggira intorno al 130% con picchi del 195% a Taranto e Como. Anche l’età dei detenuti è più alta che altrove, il che comporta maggiore vulnerabilità al Coronavirus, soprattutto se si aggiungono altri fattori che influenzano la salubrità, come l’installazione del WC in un ambiente separato dalla cella, la possibilità di mantenersi attivi (garantita giornalmente in 57 istituti ma non in 35) o l’accesso alla luce del giorno, compromessa in 29 istituti su 98.

Quanto alla carenza di personale, dipende dal tipo di figura: il numero di agenti di polizia penitenziaria per detenuto è infatti il più alto d’Europa, come spiega a Rolling Stone Alessio Scandurra di Antigone: “A mancare è il personale sanitario, gli educatori, gli psicologici e addirittura i direttori, spesso condivisi tra diversi istituti, costretti quindi a recarsi nella realtà singola solo per firmare carte e avvallare decisioni altrui”.

Proprio la macchina burocratica scricchiolante può essere stato uno dei fattori che ha portato alle rivolte, che secondo Scandurra, più che essere orchestrate dalla mafia sono state originate da difficoltà comunicative.“Le restrizioni erano necessarie, perché il carcere è un luogo in cui è difficile arginare le malattie infettive e l’unica possibilità è tenere il virus fuori, come dimostra il fatto che in molti istituti si sono registrati zero casi e pochi, come Verona e Torino, ne hanno avuti invece moltissimi”. 

Il fatto è che le misure sono state introdotte senza adeguate spiegazioni e questo ha generato panico. “Si è sospettato che la situazione fosse più grave di quanto veniva detto e che il virus fosse già entrato negli istituti. Alla sensazione di pericolo si è aggiunta la paura dell’isolamento: il carcere non è una realtà autosufficiente, tutto arriva dall’esterno e l’idea di restare tagliati fuori dal mondo è angosciante. Vuol dire diventare totalmente invisibili”. A tutto ciò si somma la rabbia per la sospensione dei colloqui, con gli agenti che invece entrano ed escono senza controlli e il paradosso di sentirsi ripetere di mantenere le distanze quando è materialmente impossibile.

“Pian piano”, riprende Scandurra, “il sistema si è in qualche modo attrezzato: sono arrivate le mascherine, i detersivi, gli smartphone e gli ipad”. Intanto però ci sono state le rivolte, che tra l’8 e il 9 marzo si sono propagate in quasi tutte le carceri italiane. Ci sono stati i morti – ben 13 – le sezioni distrutte e gli assalti alle infermerie – che la dicono lunga sulle condizioni di chi vive in carcere e che invece di svignarsela pensa al metadone. 

E ci sono stati gli episodi di rappresaglia. In seguito alle segnalazioni ricevute, Antigone ha presentato quattro esposti per quattro carceri diverse. Non si parla di violenze per sedare la rivolta ma di pestaggi brutali e organizzati nei confronti di detenuti ormai in cella, a luci spente: “manganellate, calci, pugni e teste rasate”, come si legge nel rapporto dell’associazione.

Naturalmente le immagini più spettacolari si sono prese tutto lo spazio e le proteste pacifiche – la maggior parte – hanno avuto ben scarsa visibilità. Hanno fatto invece scalpore le “scarcerazioni” introdotte per ridimensionare l’affollamento. 

Da fine febbraio a fine aprile si è registrato un calo complessivo di 7.326 presenze nella popolazione carceraria. 3.282 sono passati alla detenzione domiciliare grazie al decreto Cura Italia – persone condannate per reati non gravi con meno di 18 mesi da scontare o detenuti anziani con condizioni di salute difficili –, altri semplicemente non sono entrati. Col lockdown si è avuto un forte calo dei reati, di conseguenza, ai detenuti scarcerati per aver scontato la propria pena, non sono corrisposti altrettanti nuovi ingressi. Si è anche parlato di centinaia di mafiosi scarcerati: in realtà i detenuti al 41-bis che hanno avuto i domiciliari sono stati 4, anziani e malati.

“È bene ricordare”, dice Scandurra, “che le persone in esecuzione di pena soggette a misure alternative – come la detenzione domiciliare, la semilibertà o l’affidamento in prova – sono già diverse migliaia ed eseguono la pena senza problemi, con tassi di recidiva più bassi di quelli che si hanno in carcere”.

Rilasci a parte, nel carcere ai tempi del Covid-19 c’è stato anche un nuovo ingresso: la tecnologia. Ai detenuti è stato finalmente consentito l’uso di smartphone (non personali) e di Skype per sentire e vedere a distanza i propri cari. “Il carcere”, spiega Scandurra, “è stato costretto a superare la sua diffidenza cronica nei confronti delle nuove tecnologie e questo è importantissimo. Dal punto di vista tecnologico, negli ultimi 20 anni la vita della società libera è cambiata radicalmente mentre in carcere è rimasto tutto uguale. I detenuti hanno ancora a disposizione una sola telefonata di 10 minuti la settimana. 

Quando questa norma è stata introdotta, negli anni ’70, non era pensata come un provvedimento punitivo: un qualsiasi lavoratore fuori sede telefonava a casa più o meno con gli stessi tempi e la stessa cadenza, perché era un’operazione costosa. Oggi invece il gap è abissale e non c’è motivo di mantenerlo tale. Nella realtà attuale è impensabile coltivare un rapporto con la famiglia a queste condizioni, e va a finire che quando esci una famiglia non ce l’hai più. E la famiglia è la risorsa principale dopo la scarcerazione, perché se quando vieni rilasciato non hai un lavoro, non hai una casa ma hai una famiglia, puoi andare avanti finché non ti rimetti in sesto, se non ce l’hai…”.

Gli ultimi aggiornamenti: al momento 44 agenti di polizia penitenziaria sono iscritti nel registro degli indagati per aver aggredito i detenuti di Santa Maria Capua Vetere come rappresaglia a una rivolta ormai conclusa. Salvini ha manifestato in loro sostegno, con scarso successo. Nella maggior parte degli istituti le attività destinate ai detenuti come le lezioni, la formazione professionale o i colloqui psicologici non sono ancora riprese, nemmeno a distanza. Il calo delle presenze in carcere si è fermato: il decreto Cura Italia ha contributo a snellire un po’ l’affollamento, ma i numeri rimangono alti. E una novità che fa ben sperare: la tecnologia è finalmente entrata nelle carceri, il mondo non è crollato, il sistema non è imploso e non c’è fretta di rimandarla fuori.