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Dopo il colpo di stato, la situazione in Myanmar sta peggiorando

Dopo un mese di proteste, questo fine settimana la situazione è precipitata e la polizia ha sparato sui manifestanti, uccidendo 18 persone

Un poliziotto spara su una manifestazione di protesta a Yangon, il 28 febbraio 2021. Myat Thu Kyaw/NurPhoto via Getty Images

Esattamente un mese fa, il 1 febbraio, l’esercito del Myanmar ha preso ufficialmente il potere nel Paese dopo che le elezioni politiche tenutesi a novembre si erano trasformate in un plebiscito in favore di Aung San Suu Kyi e il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia. Timoroso di perdere il ruolo centrale che ha sempre mantenuto nel governo del Paese, l’esercito ha arrestato Aung San Suu Kyi – il cui titolo ufficiale è Consigliera di Stato, perché per legge non può essere eletta Presidente in quanto è stata sposata con un cittadino straniero – e il Presidente Win Myint, imposto la legge marziale e l’intenzione di mantenere il potere per un anno. Dell’evento si è parlato in tutto il mondo principalmente perché il colpo di stato è stato involontariamente catturato sullo sfondo di una lezione di aerobica in diretta streaming su Facebook, diventando un meme.

Nei giorni successivi, in tutto il Paese sono cominciate subito grandi manifestazioni contro il colpo di stato. Inizialmente le manifestazioni sono state pacifiche, piene di cose come cartelli ironici in inglese, cosplay e trovate originali di vario tipo allo scopo di attirare l’attenzione internazionale su quello che stava succedendo in Myanmar – proprio nel tentativo di replicare il successo del meme che aveva portato il colpo di stato, condotto in modo ordinato e senza spargimenti di sangue, a far parlare così tanto di sè. Da parte loro i militari avevano inizialmente evitato di rispondere con la forza, probabilmente pensando di lasciar sfogare il malcontento popolare e aspettare che la situazione tornasse alla normalità. Le prime misure prese dal generale Min Aung Hlaing, capo dell’esercito e di fatto leader del Paese al momento, hanno riguardato soltanto tagli e rallentamenti a singhiozzo di internet, per rendere più difficile ai manifestanti organizzarsi. 

Nelle ultime settimane però la repressione delle proteste ha cominciato a farsi più pesante. Il vero punto di svolta è arrivato il 19 febbraio scorso, quando la manifestante 20enne Mya Thwe Thwe Khaing è morta in ospedale dopo essere rimasta gravemente ferita da un proiettile della polizia a Naypyidaw, la capitale del Paese. Per i manifestanti è diventata una martire, e il fermo immagine di un video girato nel momento del suo ferimento in cui la si vede accasciata per terra è apparso su diversi striscioni alle manifestazioni successive. 

Da quel momento le cose sono precipitate e tutti i già ristretti margini di dialogo tra la giunta militare e l’opposizione sembrano essersi chiusi. Venerdì scorso Kyaw Moe Tun, l’ambasciatore del Myanmar all’ONU, si è schierato ufficialmente contro i militari chiedendo “l’azione più forte possibile da parte della comunità internazionale per porre fine al colpo di stato militare”, terminando il suo intervento con il saluto a tre dita di Hunger Games, adottato come simbolo dal movimento di protesta (su imitazione dei manifestanti thailandesi, che l’avevano già adottato a loro volta). Il giorno seguente il governo militare ha fatto sapere di averlo licenziato, ma l’ONU a sua volta ha annunciato di continuare a considerarlo rappresentante del governo legittimo del Myanmar e di non riconoscere l’autorità dei militari.

Questo fine settimana, infine, è stato il momento più sanguinoso dall’inizio della crisi. Oltre a usare lacrimogeni e granate stordenti per cercare di disperdere le proteste, la polizia ha sparato proiettili veri sulle manifestazioni. Negli scontri, secondo quanto ha riferito l’Alto commissariato dell’ONU per i Diritti umani, sono morte 18 persone in diverse città del Paese. Il numero dei manifestanti arrestati non è noto: secondo la tv di stato, controllata dai militari, sarebbero 470. 

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