Verona ci ricorda che continuiamo ad avere qualche problema con la polizia | Rolling Stone Italia
Mele marce

Verona ci ricorda che continuiamo ad avere qualche problema con la polizia

L'indagine che ha portato agli arresti di cinque agenti – e all'iscrizione nel registro degli indagati di altri 21 – ci ricorda che in Italia gli abusi in divisa continuano a essere un problema serio

Verona ci ricorda che continuiamo ad avere qualche problema con la polizia

Uno dei fotogrammi tratti dai filmati delle telecamere di sorveglianza interne alla questura di Verona

Le immagini, come si dice in certi casi, parlano da sole. Un uomo urina per terra in un angolo e poi ci viene trascinato sopra a mo’ di straccio. Un altro prende un po’ di botte mentre è seduto e disarmato, poi viene buttato per terra. Un altro ancora viene preso di peso e portato fuori dalla stanza, quando rientra ha una ferita in testa.

Sono cinque i poliziotti arrestati a Verona con l’accusa di aver picchiato e torturato diverse persone nei locali della questura. I casi accertati secondo gli investigatori sono sette, gli indagati invece ventidue, diciassette dei quali sono stati trasferiti e destinati ad altre mansioni. Gli arrestati – ai domiciliari per decisione del Gip – sono cinque, quattro agenti e un ispettore: Alessandro Migliore, Loris Colpini, Federico Tommaselli, Roberto Da Rold e Filippo Failla Rifici. Le accuse, formalmente, sono tortura, lesioni, falso, omissione d’atti d’ufficio, peculato e abuso d’ufficio.

Le indagini, a quanto si legge nell’ordinanza firmata dalla giudice Livia Magri, sarebbe partita lo scorso agosto dopo un’intercettazione all’agente Migliore, 25 anni, finito per primo sotto la lente della procura a causa di una perquisizione effettuata qualche mese prima a un gruppo di persone accusate di omicidio e detenzione di armi. Il sospetto era che l’indagine fosse stata fatta con troppa leggerezza per via dei rapporti personali di Migliore con i soggetti in questione, gestori di una discoteca e per questo soprannominati «i ballerini».

Nell’intercettazione l’agente si vantava con la fidanzata delle sue imprese con un fermato: «Ha iniziato a rompere il cazzo. Vi spacco sbirri di merda, di qua e di là… Allora ha dato una capocciata al vetro. Il collega apre la porta e “vieni un attimo fuori, adesso ti faccio vedere io quante capocciate alla porta dai. Boom, boom, boom, boom… E io ridevo come un pazzo». E ancora: «Amo’, mi guarda, mi ero messo il guanto, ho caricato una stecca, amo’, bam, lui chiude gli occhi, di sasso per terra è andato a finire, è rimasto là… È svenuto…Minchia che pigna che gli ho dato». Da lì le indagini finite solo lo scorso marzo, con altri sei casi di violenza accertati e gli arresti arrivati all’inizio di giugno.

Quando si verificano casi del genere, lo schema del dibattito pubblico tende a ripetersi sempre uguale a se stesso: prima si condannano gli episodi, poi si introduce il concetto di «mele marce», poi ancora si aggiunge che sarebbe sbagliato generalizzare e infine si passa all’attacco dicendo che chi solleva dubbi è un nemico delle forze dell’ordine, dunque un fiancheggiatore della criminalità. Francesco Giubilei, sulle colonne del Giornale, ha unito tutti i puntini nel giro di poche ore e ha già sentenziato: «Se confermate, le violenze dei poliziotti a Verona sono inaccettabili e gli agenti ne dovranno rispondere. Colpisce però il silenzio quando sono aggrediti i poliziotti: nel 2021 ci sono state 2655 aggressioni agli agenti, più di 7 al giorno, una ogni 3 ore». Giubilei, per qualche motivo ritenuto «un intellettuale», sembrerebbe intendere l’ordine pubblico come una specie di scontro tra gang rivali: da una parte i delinquenti e dall’altra i poliziotti, gli uni contro gli altri con le stesse armi a disposizioni, e se gli uni sono violenti anche gli altri allora sono autorizzati ad esserlo. Sfugge, in tutto questo, che la giustizia e le leggi ce le siamo inventate proprio per evitare che i conti in sospeso si debbano regolari a colpi di vendette e, dunque, chi è incaricato di tutelare l’ordine, cioè chi detiene il monopolio legittimo dell’uso della forza, dovrebbe evitare in tutti i modi di degenerare.

Questo concetto, in sé banale, è una delle basi dello stato di diritto, nonché un valido motivo per far sì che le persone vadano in giro armate a farsi giustizia da sole. Eppure l’impossibilità di mettere in discussione l’operato della polizia è un punto fermo della dialettica politica degli ultimi decenni: dalla Uno Bianca al G8 di Genova, dal caso Cucchi al caso Uva, da Federico Aldrovandi ad Aldo Bianzino. A stupire e a destare perplessità non sono tanto le violenze in sé, quanto quello che ci sta intorno: un alone impenetrabile di silenzio e di omertà, un percorso a ostacoli per chiunque chieda giustizia, un fuoco di sbarramento verso chi fa domande e vorrebbe risposte.

In tutto questo, il governo Meloni ha più volte promesso di abrogare il reato di tortura, ovvero l’unica forma prevista dalla nostra giurisprudenza per perseguire in maniera specifica gli abusi delle forze dell’ordine. Di numeri di riconoscimento sulle divise della celere e di telecamere che riprendano il loro operato, ovviamente, manco se ne può parlare.

Era il 1981 quando il Corpo delle guardie di pubblica sicurezza divenne Polizia di Stato, un momento in cui si parlò di democratizzazione e smilitarizzazione delle forze dell’ordine. Eravamo nel cuore degli anni del terrorismo, quando ogni giorno in Italia si registravano omicidi, attentati, ferimenti, sequestri… Una situazione oggettivamente difficile e che però non riuscì a fermare la necessità di trasformare la polizia in qualcosa di meglio di quanto fosse in precedenza. Aprire una discussione del genere, al giorno d’oggi, appare fantascienza. Anche se i reati calano di anno in anno e il paese non è mai stato così sicuro in tutta la sua storia.