Gli studenti hanno ragione: senza casa non c’è futuro | Rolling Stone Italia
Emergenza abitativa

Gli studenti hanno ragione: senza casa non c’è futuro

Gli affitti insostenibili, il mercato immobiliare impazzito, famiglie sottoposte ai ricatti degli speculatori e un diritto all'abitare puntualmente negato: la protesta delle tende mette in luce una realtà di cui si parla troppo poco

Gli studenti hanno ragione: senza casa non c’è futuro

Foto di Andrea Ronchini/NurPhoto

Avevo diciannove anni quando ho lasciato casa per trasferirmi da Lecce a Torino e frequentare l’università. Un lusso che mi sono potuta permettere perché mia madre e mio padre hanno acconsentito prima di tutto a pagarmi un affitto e poi la spesa. Con le tasse me la sono più o meno cavata: vista la situazione patrimoniale della mia famiglia e la distanza dal luogo di nascita, sono riuscita ad ottenere fino alla laurea riduzioni e agevolazioni.

Ma come avrei potuto studiare, se non avessi potuto abitare?

In questi giorni studenti e studentesse provenienti da diverse parti d’Italia, e domiciliati in un posto diverso da quello di residenza, si sono accampati in tenda di fronte ad alcune delle maggiori università del nostro Paese. Un gesto simbolico per protestare contro il prezzo esorbitante degli affitti: un costo che sta costringendo alcuni ragazzi ad arrangiarsi in situazioni abitative poco consone – per intenderci, c’è chi dorme in macchina.

Tant’è che qualcuno, dando un’occhiata ai dati, ha iniziato a parlare di emergenza abitativa. Scenari Immobiliari, un ente di ricerca indipendente, ha scritto che nei primi tre mesi del 2023 per affittare una stanza singola poco più grande della misura minima sancita dalla legge (28 mq) a Milano sono serviti in media almeno 800 euro – è vero che la situazione non riguarda solo Milano, non riguarda solo l’Italia e non colpisce esclusivamente gli studenti, ma questa è un’altra storia.

I fuorisede che non possono permettersi un alloggio privato, e che quindi si rivolgono alle residenze universitarie perché teoricamente meno costose, spesso finiscono per non riuscire ad avere accesso neppure a queste. I posti non bastano a coprire la domanda, e qualcuno, inevitabilmente, rimane fuori.

La casa non è da intendersi esclusivamente come uno spazio fisico. Oltre a fornire concretamente l’opportunità di vivere al riparo, dormire e mangiare con un tetto sulla testa, a seconda delle sue caratteristiche e dell’ambiente, anche un’abitazione può influire su decine di aspetti non appartenenti alla sfera “pratica”. Eurostudent, un progetto di raccolta dati incentrato sull’istruzione in Europa, dice che l’alloggio ha una sua funzione sociale e psicologica, in particolare quando è condiviso con altre persone, e che questo può favorire l’integrazione socio accademica dei ragazzi. Significa che un certo tipo di convivenza, condotta in una certa struttura – magari ben luminosa, o decentemente collegata con l’università, che sia sufficientemente grande e che in generale trasmetta benessere –, potrebbe anche dissuadere lo studente dall’ipotesi di abbandonare gli studi. Tant’è che Eurostudent addirittura definisce l’alloggio «un fattore che influenza in maniera decisiva il grado di soddisfazione della propria vita», su cui però è difficile avere potere decisionale se le preferenze personali sono totalmente eclissate da una scelta dettata dai costi.

La disponibilità di alloggi a prezzi accessibili rientra, quindi, a pieno titolo fra quelle libertà di scelta che le politiche sociali dovrebbero essere in grado di garantire a tutti.

Oggi, invece, vivere con i genitori è spesso la forma di abitazione più economica e più scelta (lo studente opta quindi per una università non troppo lontana dal Comune di residenza, riducendo così il proprio ventaglio di opzioni). Una tendenza confermata dai numeri riportati da Sarah Gainsforth, ricercatrice esperta di questioni abitative, secondo cui in Italia – e in altri Paesi come Romania, Georgia e Malta – il 68% degli studenti universitari vive a casa propria. Dei restanti, solo il 5% usufruisce di un alloggio pubblico (o privato, ma classificato come studentesco). Dodici punti sotto la media europea.

Questo perché, pur risultando idoneo a ricevere un posto letto in una residenza universitaria, al fuorisede spesso questo diritto, all’atto pratico, viene negato per mancanza di strutture. Dall’analisi svolta dalle associazioni studentesche, usufruendo dei dati del Ministero, è emerso che lo squilibrio tra copertura del servizio pubblico e copertura delle locazioni private è altissimo. E «il costante sotto finanziamento del sistema universitario rende l’esigenza di ricorrere alle secondo sempre maggiore», scrive il Consiglio Nazionale degli studenti Universitari nel suo rapporto sulla condizione studentesca nel 2022. Infatti, di fronte a circa 764 mila studentesse e studenti fuori provincia, corrisponde una disponibilità di posti letto pari a poco più di 36mila unità (ossia il 5%). Motivo per cui «i ragazzi sono costretti a rivolgersi al mercato privato degli affitti, incrementando il rischio di speculazione immobiliare».

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), che ha previsto per l’Italia quasi un miliardo di euro da utilizzare per portare entro il 2026 il numero posti letto a oltre 100mila, ha suscitato alcune perplessità.

Gainsforth spiega che la maggior parte delle risorse sarà destinata alla creazione di residenze studentesche gestite però da privati, che di fatto possono richiedere canoni di locazione più alti del previsto. Tra l’altro «nei bandi è caduto l’obbligo per i privati di destinare il 20% di alloggi agli studenti in graduatoria per il diritto allo studio. Ora il vincolo è sostituito dalla parola “prioritariamente” e dei canoni non si fa menzione».

Infatti, mentre i primi 300 milioni – già spesi da enti di diritto allo studio universitario, o dalle stesse università o da soggetti terzi addetti al settore, come le fondazioni – hanno permesso all’inizio del 2023 di costruire 8.581 nuovi posti letto, gli altri 660 milioni finiranno nelle mani dei privati. Un intervento necessario per rispettare le scadenze del PNRR e sopperire all’impossibilità del pubblico di fare tutto entro il tempo stabilito.

Patrizia Mondin, presidente di Er.Go, l’istituto per il diritto allo studio dell’Emilia-Romagna, ha detto a Irpi che «il rischio è che si crei un doppio standard, in cui le residenze pubbliche sono viste come prerogativa dei poveri, a cui si danno alloggi che non hanno alti standard, poi ci sono gli studentati di lusso privati, con tantissimi servizi».

Praticamente, per una serie di ragioni – tra cui quelle elencate da Alessandro Santoro, professore di Scienze delle Finanze, come «controversie nell’interpretazione degli obiettivi, difficoltà a riformare e attuare le leggi esistenti e la scelta di puntare fortemente sul settore privato» , il rischio di vanificare la grande occasione offerta dal PNRR è piuttosto concreta. Lasciandoci nuovamente con «politiche che non pongono realmente al centro la formazione e gli studi universitari, ma che mirano solamente a trovare delle strategie che consentano allo Stato di investire sempre meno e ai privati di chiedere sempre di più», conclude il Consiglio Nazionale.

Tuttavia, come spesso accade, il problema di fondo è finito per essere oscurato dal solito dibattito all’italiana sui ragazzi svogliati e poco propensi al sacrificio, sul rimpallo di responsabilità tra destra e sinistra e così via. Anche questa volta, che lo Stato non sia in grado di realizzare quello per cui esiste, anche quando i soldi gli piovono addosso, sembra non interessare quasi a nessuno.

E allora come potranno i ragazzi continuare a studiare, senza il diritto di abitare?