Nelle carceri italiane botte, torture e umiliazioni sono ancora la norma | Rolling Stone Italia
Diritti

Nelle carceri italiane botte, torture e umiliazioni sono ancora la norma

Abbiamo intervistato Nello Trocchia, giornalista e scrittore che ha raccontato il pestaggio di Stato di Santa Maria Capua Vetere: «Il carcere non è soltanto un serbatoio criminale»

Nelle carceri italiane botte, torture e umiliazioni sono ancora la norma

Mentre di carcere si continua a morire nell’indifferenza generale (80 suicidi finora, il dato più alto degli ultimi 22 anni) al momento sono oltre 200 le persone (agenti, operatori, medici e funzionari) indagate, imputate o già condannate in procedimenti che riguardano torture e violenze nelle carceri italiane.

Soltanto nel mese di novembre sono emersi tre casi a Bari, Ivrea e Reggio Calabria. Una situazione denunciata quotidianamente da realtà come Antigone, l’associazione che dal 1991 si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario.

Quando si parla di abusi dietro le sbarre uno degli episodi più gravi è la mattanza del 6 aprile 2020 avvenuta nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere “Francesco Uccella”. Quel giorno quasi trecento agenti della polizia penitenziaria muniti di caschi e manganelli, alcuni a volto coperto, fecero irruzione nelle celle e per ore presero a calci, pugni e schiaffi i detenuti del reparto Nilo.

Il carcere campano è al centro di un processo che ha visto il rinvio a giudizio davanti alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere di 105 imputati. I reati contestati a vario titolo vanno dall’omicidio colposo come conseguenza di tortura alle lesioni pluriaggravate, passando per l’abuso di autorità e il falso in atto pubblico. «Tra gli imputati 20 unità appartenenti al corpo di polizia penitenziaria sono ancora in servizio presso l’Istituto perché ritenuti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) compatibili con le mansioni assegnate», segnala Antigone nel report di una visita effettuata lo scorso luglio.

«Santa Maria Capua Vetere è il fallimento della struttura sociale ed istituzionale del nostro paese», scrive la senatrice Ilaria Cucchi nella prefazione di Pestaggio di Stato (Editori Laterza, 2022). L’autore del libro è Nello Trocchia, l’inviato del quotidiano Domani che ha raccontato per primo le violenze nel carcere “Francesco Uccella”. Secondo il cronista questa vicenda è «anche una fotografia della disuguaglianza che, come un macigno insopportabile, affonda il nostro paese».

Trocchia, può raccontarci cos’è accaduto a Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020?
Siamo in provincia di Caserta. C’è una situazione nel paese di paura, di panico collettivo. C’è una pandemia, lo stato di emergenza è stato dichiarato da poco più di un mese. La paura e il panico corrono anche nelle carceri e nelle celle. I detenuti hanno paura di contagiarsi, esattamente come le persone all’esterno, e quando le risposte non arrivano si aggiunge anche la sospensione dei colloqui in carcere che diventano via Skype. Annunciata questa misura, scattano le rivolte. A Santa Maria Capua Vetere il 5 aprile c’è una protesta: si colpiscono le grate con dei pentolini, si prendono le brandine e i materassi per creare una specie di barricata e con la battitura si fa rumore per avere le mascherine e parlare con i responsabili. A Santa Maria c’è un caso di contagio Covid e quindi c’è il caos. Questo caos rientra a tarda sera. Racconto quella giornata perché ho visto i video che mostrano i detenuti mentre mettono a posto tavolini, letti e brande. La vicenda sembra rientrata, ma il giorno dopo la quiete si trasforma in un pestaggio di Stato. Il 6 aprile 283 poliziotti, provenienti anche da altri istituti, entrano in carcere e massacrano di botte i detenuti inermi del reparto Nilo che ospita i cosiddetti ‘senza potere’, cioè le persone che hanno commesso reati di strada: furti, rapine e spaccio sono i crimini prevalenti in quella sezione. Molti di loro sono stranieri. Vengono massacrati di botte per quattro ore e mezza dagli agenti penitenziari. Il garante dei detenuti viene avvisato dai familiari dei ristretti che denunciano le violenze all’interno del carcere. Per l’amministrazione giudiziaria non è accaduto nulla. A settembre inizio un’inchiesta per il quotidiano Domani. Ascolto un primo testimone, poi altre fonti, pubblico vari articoli, diverse prime pagine, racconto le storie di un detenuto manganellato e di un altro morto il 4 maggio di cui all’epoca non conoscevo il nome. Non succede nulla fino a quando nel giugno successivo pubblico i video delle telecamere di sicurezza. Per la prima volta nel libro ricostruisco e svelo come nasce la menzogna di Stato sul pestaggio di Santa Maria Capua Vetere”.

Il detenuto morto si chiamava Lamine Hakimi e la sua storia è emblematica.
Sì, Lamine Hakimi, deceduto il 4 maggio dopo essere stato violentemente pestato e messo in isolamento con la stesura di false informative, in quel carcere non ci doveva stare. Grazie ad Antigone e all’avvocata Simona Filippi ho intervistato la madre di Lamine che ancora fatica a credere che il figlio sia morto nel carcere di un paese democratico a seguito di un pestaggio violento. Hakimi non doveva stare in carcere perché aveva disturbi mentali. Il suo posto era in una comunità, nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture sanitarie di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi) che però non hanno abbastanza posti disponibili. Questa storia racconta l’idea di giustizia nel nostro paese. Una giustizia di classe che usa i guanti di velluto nei confronti dei colletti bianchi e ricorre invece al manganello contro gli ultimi.

È difficile raccontare questo mondo?
Parlare di carcere è sconveniente ancora di più adesso, ma lo era anche prima perché tendenzialmente nella guerra tra chi ha meno e chi ha poco di più il carcere viene identificato come un luogo in cui la violenza fa quasi parte della normalità. Non è così e noi tutti dovremmo immaginare le carceri come luoghi di rieducazione per una ragione molto semplice: la nostra sicurezza. Se vediamo i dati scopriamo che chi accede a una pena alternativa, ha delle opportunità lavorative anche all’interno del carcere e si trova in un sentiero di rieducazione ha molte meno possibilità di recidiva. Una questione che riguarda le persone dei centri urbani e delle periferie, non certo chi vive nei perimetri blindati dei palazzi della politica. Per questo bisognerebbe occuparsi di carcere e insistere affinché la politica se ne occupi. I poteri non sanno com’è il carcere perché non lo frequentano, neanche quando sbagliano. Sono consapevole che di carcere si fa fatica a parlare proprio perché le carceri vengono costruite in periferia in modo che non si vedano. Vengono trasformate in serbatoi criminali e tutto questo si riverbera nella insicurezza delle città che condiziona le politiche e spinge verso la cosiddetta carcerizzazione. Ogni fenomeno sociale deviante si affronta aumentando le pene. È questo lo scenario perfetto che viene concepito per alimentare la guerra tra poveri.

E il nuovo governo come sta affrontando la questione? Le premesse non sembrano incoraggianti, dalle dichiarazioni di qualche anno fa della presidente del Consiglio Giorgia Meloni sul reato di tortura ai tagli di spesa per l’amministrazione penitenziaria.
L’attuale sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove nel giugno del 2020 presentò un’interpellanza all’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede chiedendo l’encomio solenne per chi aveva operato a suo avviso in maniera ineccepibile. Il punto è che questi agenti penitenziari pochi giorni prima erano stati raggiunti da un avviso di garanzia per tortura. Certo, un avviso di garanzia non è una condanna, ma rappresenta per un uomo delle istituzioni una specie di allerta, un invito alla cautela. Il fatto che chi ha presentato questa interpellanza sia diventato sottosegretario alla Giustizia mi sembra la chiusura del cerchio. Sarebbe interessante vedere che cosa farebbe nella sua attuale veste in altri eventuali casi simili. E ricordo che ho realizzato l’inchiesta su Santa Maria Capua Vetere durante il secondo governo Conte, quindi la mia non è una posizione contro questo o quel governo. Sono un giornalista e faccio il cane da guardia del potere. Registro però che nelle ultime settimane abbiamo assistito a estenuanti dibattiti sui rave e qual è stato l’approccio rispetto al tema? È diventata un’emergenza nazionale. Hanno scritto un decreto con i piedi (a detta della maggior parte dei giuristi) con una direzione chiara, cioè quella dell’aumento delle pene e della carcerizzazione. E allo stesso tempo il ministro della Giustizia Carlo Nordio propone la depenalizzazione di alcuni reati. Siamo all’interno di una contraddizione che si spiega soltanto in un modo: fumo negli occhi, dai rave ai migranti. Anche lì le parole costruiscono la narrazione: gli ultimi vengono chiamati carichi residuali. Sono le vite di scarto di Zygmunt Baumann che trovi nella percezione che alimentano del detenuto che deve stare in cella. Alla fine la colpa è sempre e solo del detenuto (o del migrante). Questa idea del carcere come serbatoio criminale mal si concilia con la carta costituzionale.