L’ultima baraccopoli di Seul è la prova che ‘Parasite’ ci ha raccontato il vero | Rolling Stone Italia
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L’ultima baraccopoli di Seul è la prova che ‘Parasite’ ci ha raccontato il vero

A pochi metri dal lussuoso quartiere di Gangnam c'è un 'mondo di sotto' simile a quello che Bong Joon-ho ha immortalato nel suo capolavoro: è il villaggio abusivo di Guryong, dove mille persone vivono in condizioni di indigenza estrema e campano di espedienti. Una fotografia delle profonde disuguaglianze che affliggono la Corea del Sud

L’ultima baraccopoli di Seul è la prova che ‘Parasite’ ci ha raccontato il vero

Foto di Lam Yik Fei/Getty Images

Venerdì mattina erano quasi le 6:30 quando le fiamme hanno cominciato a divampare a Guryong. Un malfunzionamento della corrente, probabilmente un contatto deve aver appiccato il fuoco in una delle case dell’abitato che si trova nel quartiere di Gangnam, in centro a Seul. La popolazione si è subito allertata chiamando i pompieri, che sono arrivati sul posto dopo appena 5 minuti secondo quanto riferito dalla locale caserma dei vigili del fuoco. Eppure non c’è stato niente da fare. Quando, dopo cinque ore, l’incendio è stato finalmente domato sessanta case erano state rase al suolo lasciando quasi altrettante persone senza un tetto, mentre altre cinquecento persone sono state sfollate. Per fortuna non c’è stato nessun morto.

Per quanto tragica, la storia così raccontata non avrebbe nulla di particolare. Roghi e incendi nei centri urbani non sono un evento peculiare della Corea, non più di altri paesi. A Guryong però dal 2009 si sono verificati sedici incendi, più di uno all’anno. Sarebbe una media spaventosa ovunque, ma lo è in particolare qui. Anche se il motivo è tristemente poco sorprendente. Guryong infatti non è un abitato qualsiasi, è una delle ultime baraccopoli della capitale sudcoreana. Anzi, “baraccopoli” non sarebbe nemmeno il termine corretto, perché i coreani lo chiamano in un altro modo: daldongnae, che in lingua coreana significa più o meno “villaggio della luna”.

Seul è la capitale della quarta economia più grande dell’Asia e, considerando il suo enorme hinterland, conta più della metà degli abitanti del Paese. È il centro gravitazionale della politica, della cultura e certamente anche dell’economia sudcoreane. Eppure ai margini di una delle maggiori metropoli del continente si trovano ancora piccole comunità come quella di Guryong, che non è stata l’unica a sopravvivere allo sviluppo urbano della capitale.

Costruite abusivamente senza alcuna pianificazione urbana, le abitazioni che compongono Guryong non possono essere descritte in molti altri modi se non come catapecchie. I materiali da costruzione più diffusi sembrano essere pannelli di plastica, lamiere, legno compensato, barre di metallo e cartone. Si tratta per la maggior parte di materiali infiammabili, che rendono questo abitato molto vulnerabile agli incendi – il Guardian qualche anno fa aveva realizzato un breve reportage fotografico dalla baraccopoli, che si può recuperare qui.

Eppure, da oltre trent’anni, Guryong è casa per qualche migliaio di cittadini della capitale, che nella loro comunità hanno istituito molti dei servizi disponibili negli altri quartieri di Seul. L’acqua corrente, la rete elettrica, il sistema postale, la chiesa e anche qualche mini-attività commerciale come un piccolo ristorante. Dal 2011 il governo ha anche distribuito agli abitanti del daldongnae una tessera di residenza temporanea, senza la quale non era loro permesso di partecipare alle elezioni.

Molti dei residenti di Guryong sono estremamente poveri e sopravvivono raccogliendo e dividendo la spazzatura per poi rivenderla alle aziende che la riciclano. Una attività da appena una manciata di dollari al giorno. Chi può ovviamente cerca di andarsene, e in un decennio gli abitanti sono passati da 2500 alle circa mille persone di oggi.

Guryong è il daldongnae sorto più di recente a Seul. Le sue origini risalgono agli anni ’80 e sono strettamente legate alla preparazione dei Giochi olimpici che la Corea del Sud ospitò nel 1988. La popolazione originaria di Guryong era composta da cittadini di zone povere della capitale che erano stati sfrattati dalle loro abitazioni per far spazio a estesi piani di sviluppo urbano, che la nuova Corea in fase di transizione verso la democrazia (le prime libere elezioni si erano tenute appena un anno prima) intendeva usare come biglietto da visita per presentarsi al mondo in occasione dei giochi olimpici. Sebbene lo sviluppo economico avesse già permesso il decollo del paese da alcuni decenni, verso la fine degli anni ’80 l’immagine internazionale della Corea del Sud era ancora quella di un paese impoverito e devastato dalla guerra. Le Olimpiadi avrebbero dovuto cambiare questa percezione.

Così il governo sudcoreano cominciò a espellere i residenti delle zone povere a sud di Seul, in particolare quelle vicine allo stadio olimpico Jamsil dove si sarebbero tenute le cerimonie di apertura e chiusura delle Olimpiadi. Sfrattati dalle proprie comunità, una parte di questi cittadini venne spinta ai margini della città trovando riparo su alcuni terreni privati e occupandoli illegalmente ai piedi del monte Guryong. Negli anni successivi, mentre il quartiere di Gangnam attraversava una fase di sviluppo urbanistico che l’avrebbe reso una sorta di Beverly Hills sudcoreana, nuove ondate di sfrattati trovavano rifugio tra le baracche del daldongnae.

I “villaggi della luna” sono una realtà con profonde radici in Corea del Sud, anche se oggi stanno man mano scomparendo. In alcuni casi li si può far risalire fino al periodo della partizione della Corea, quando migliaia di rifugiati da Nord raggiungevano il Sud ma in mancanza di sufficienti spazi abitativi costruivano rifugi di fortuna. A loro, si sarebbero uniti poi tutti i migranti interni che durante gli anni del boom economico dalle zone rurali e povere si spostavano nella capitale per cercare fortuna. L’esperienza dei daldongnae è stata trasversale a un’intera generazione di sudcoreani, soprattutto quelli più anziani, tanto che in alcuni casi la città di Seul si è mossa anche per preservarne il lascito culturale e urbano.

Oggi però abitare a Guryong per molti versi comporta un certo stigma sociale. Gran parte degli abitanti originari sono ormai invecchiati e, in assenza di nuovi arrivi, la popolazione è sempre più anziana e sempre meno numerosa. Per molti andarsene non è un’opzione, non solo per le difficoltà della vecchiaia ma soprattutto per mancanza di risorse sufficienti a comprare o affittare un appartamento altrove.

La Corea del Sud infatti è un Paese con un grosso problema di povertà, soprattutto tra gli anziani. Secondo i dati dell’OCSE, nel 2021 il 37,6% della popolazione nella fascia superiore ai 65 anni di età è considerato in “povertà relativa”, e cioè percepisce un reddito inferiore della metà del reddito medio. Fino a qualche anno fa, questo numero era ben superiore al 40%. Si tratta di un dato quasi quattro volte più alto della povertà registrata tra la popolazione sudcoreana in età lavorativa e molto al di sopra di qualsiasi altro paese sviluppato.

A enfatizzare questa disparità c’è poi il contrasto visivo che ha attirato tanti fotografi, ispirati dalla critica sociale di Squid Game o Parasite. Perché Guryong e il quartiere ricco, scintillante e trendy di Gangnam sono divisi appena da una strada. Mentre nel daldongnae gli abitanti si rifugiano in case di fortuna, a Gangnam gli appartamenti nei grattacieli che stanno dirimpetto costano anche 2,2 milioni di dollari l’uno.

Per questo motivo, da oltre un decennio è in corso una lunga diatriba sulla rilocazione degli abitanti di Guryong in modo tale da permettere la costruzione di nuovi (costosi) appartamenti sul terreno che oggi è occupato illegalmente. L’area si trova infatti nell’unica parte di Gangnam che non è stata ancora costruita. Già diverse proposte sono state messe sul tavolo, ma nessuna è riuscita a mettere d’accordo le autorità cittadine, i residenti, i proprietari del terreno e la società edile. Dalle interviste ai residenti riportati dalla stampa locale, sembra che nessuno ci creda davvero e che Guryong sia destinata a rimanere ancora il simbolo più evidente delle profonde disuguaglianze che affliggono la Corea del Sud.