Luca Zaia: lucine a Nord-Est | Rolling Stone Italia
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Luca Zaia: lucine a Nord-Est

Il governatore veneto si sta imponendo come voce progressista della Lega: sostiene il diritto all'aborto, l'eutanasia e il matrimonio egualitario, ha aperto al DDL Zan e considera l'omofobia una malattia. Le sue aperture sono importanti: forse, c'è spazio per i diritti civili anche a destra

Luca Zaia: lucine a Nord-Est

In foto: il manifesto che CasaPound ha dedicato a Luca Zaia dopo l'apertura del centro per la disforia di genere di Padova

Tra decreti anti–rave venduti come soluzione a un’emergenza che non esiste, una famiglia composta da madre, padre e figlio trattata come unica, sola comunità concepibile dal punto di vista della natura e del diritto e un sempre più evidente revival della “guerra ai taxi del mare” di dimaiana memoria, la sensazione di ritrovarci nel mezzo di una distopia a metà tra l’apocalittico e il cyberpunk prende sempre più corpo.

Dopo sette mesi, possiamo dirlo senza timore di smentita: a un governo intrinsecamente conservatore come quello guidato da Meloni – lo stesso che cala i migranti nei panni di carichi residuali, difende a oltranza le obiezioni di coscienza e flirta allegramente con le istanze omofobe del club di Visegrad – i diritti civili non piacciono.

L’eutanasia, il rafforzamento del reato di tortura, la legalizzazione delle droghe, la stepchild adoption, la garanzia di applicazione della legge sull’aborto sono tutte realtà che cozzano con gli interessi della maggioranza.

In una congiuntura del genere, come suggerirebbe il Moretti più à la page, quello di Palombella Rossa, le parole diventano più importanti che mai. Abbiamo bisogno di concetti di rottura, dobbiamo appropriarci di anticorpi d’opinione capaci di contrastare la narrazione a senso unico propagata dal governo più a destra della storia repubblicana.

Quando queste parole provengono dall’opposizione, un meccanismo di rimozione ci porta a sottovalutarle: immedesimarci in un Riccardo Magi che parla di omofobia di Stato o in una Elly Schlein che impugna la bandiera dei diritti civili è un’esercizio di identificazione troppo semplice, quasi scontato. Quando il dissenso viene manifestato direttamente dal cuore della maggioranza, però, l’effetto è decisamente più spiazzante.

Prendiamo in prestito un esempio dall’Inghilterra: in un passaggio del suo libro autobiografico For the record, pubblicato nel 2019, l’ex primo ministro britannico David Cameron ricorda la sua grande soddisfazione per l’introduzione nel Regno Unito del matrimonio tra persone dello stesso sesso. Il fu leader dei Conservatives non nasconde che quella è stata una delle battaglie più difficili che ha dovuto combattere nel suo governo e soprattutto all’interno del partito: un percorso in salita in cui ha rischiato di perdere pezzi importanti a causa del suo atteggiamento reputato troppo aperturista. «Un volto noto dei Tories venne anche in ospedale, prima di un mio intervento chirurgico, e strappò la tessera. Ma non ho assolutamente rimpianti, è una delle cose di cui sono più orgoglioso», scrive Cameron.

Il contributo dell’ex premier e di una schiera di dissidenti conservatori (dall’allora sindaco di Londra Boris Johnson al ministro dell’Educazione Michael Gove, fino al ministro cattolico dei Trasporti Patrick McLoughlin), riuniti informalmente nello schieramento “Freedom to Marry”, risultò decisivo per raggiungere un risultato fondamentale e scolpire nella lettera della legge un’istanza che, solitamente, tendiamo ad associare alla sinistra.

Alle nostre latitudini, purtroppo, funziona diversamente: nel panorama politico nostrano i Cameron si contano sulle dita di una mano. Nella congiuntura psicologica della destra italiana, immaginare uno spazio per tutelare i diritti civili è un esercizio difficilissimo, quasi un’aberrazione. Per fortuna qualche eccezione c’è: ne abbiamo avuto un esempio qualche settimana fa, quando Mario Conte, sindaco 43enne di Treviso (una vera e propria roccaforte leghista) ha espresso una posizione di contrarietà alle indicazioni di Piantedosi sulle trascrizioni all’anagrafe dei figli di coppie omogenitoriali.

La vera anomalia di sistema, però, si chiama Luca Zaia: le posizioni del presidente del Veneto sui diritti civili sono talmente progressiste da fare impressione, soprattutto se comparate al panorama oscurantista dominante all’interno della Lega. La scorsa settimana ha appoggiato apertamente una proposta dell’Associazione Luca Coscioni: «Il Paese, lo Stato, le istituzioni devono essere a fianco del malato grave», ha detto, «garantendo sostegno sanitario, sostegno economico, sostegno psicologico, garantendo che non ci sia nessuno che voglia sbarazzarsi del familiare in difficoltà».

Non è la prima volta che Zaia mostra una certa sensibilità verso tematiche che la maggior parte dei colleghi di partito considera dei tabù in piena regola. Ad esempio, a marzo ha dato il via libera per l’apertura del centro regionale di Padova per la disforia di genere. In quell’occasione il governatore ha spiegato che «La delibera era pronta da mesi, ma ho voluto fortemente che non fosse inficiata da periodi elettorali e da discussioni nazionali. Ho preferito aspettare un momento di pace, perché non ci fosse strumentalizzazione politica, dato che è una bella cosa. Per me è un segno di civiltà, un percorso che faccio assieme a tutti i veneti».

Come da pronostici, la sterzata LGBTQ+ friendly di Zaia ha scatenato il malumore delle destre locali, sintetizzato dal provocatorio manifesto che CasaPound ha affisso affisso in diverse città del Veneto, in cui il governatore veneto viene calato nei panni di un pericoloso trotzkista portatore di devianze, con tanto di falce, martello e sfondo rosso.

I mal di pancia dei tradizionalisti sono sono più che comprensibili: quando un tuo alleato evidenzia l’anacronismo della ditta di cui fai parte, be’, finisci per tenerlo in considerazione, addirittura per temerlo.

L’inconsueta “arcobalenizzazione” di Zaia è iniziata da tempi non sospetti: l’anno scorso la sua apertura verso il DDL Zan, per qualche settimana, ha dato l’illusione di potere impedire alla Lega di  fare un gioco a catenaccio contro la legge anti–omofobia. 

Ma la marcia di Zaia da Stonewall non finisce qui. Riavvolgiamo il nastro: è il 2019, a Verona va in scena il XIII Congresso mondiale delle famiglie. La fauna sociale e la scenografia sono quelle è lecito aspettarsi da un evento del genere: ci sono proprio tutti, dagli integralisti cattolici di Oltreocenao muniti di striscioni pro–life e cappellini MAGA fino agli ortodossi, protestanti, mormoni e ai retrogradi di casa nostra, armati di un grottesco campionario di gadget in cui risaltano feti di plastica, foto di embrioni e scritte cubitali del calibro di “Aborto genocidio di Stato” e “Umano fin dall’inizio”. In piazza sventolano le bandiere di Militia Christi, il movimento ultracattolico legato a Forza nuova, e i fedeli attendono i due santoni del momento: il leader del Family Day Massimo Gandolfini, recentemente nominato come consulente antidroga del governo Meloni, e il vero e proprio nume tutelare dell’evento, il presidente dell’Organizzazione internazionale per la famiglia Brian Brown, quacchero convertitosi al cattolicesimo, padre biologico di nove figli e trumpista della prima ora.

Alla manifestazione partecipa pure Zaia, che coglie l’occasione per difendere la legge 194, quella che garantisce l’aborto in Italia e che soffre, da anni, di clamorosi vuoti di applicazione. In un clima del genere, il governatore spiega che «Il congresso ha il dovere di essere ancora più chiaro: sull’omofobia, sul ruolo sociale della donna e anche sulla legge 194. In Italia c’è una legge e non va toccata».

Per la salute della nostra democrazia, queste aperture hanno un grande valore: sono la testimonianza che il centrodestra può cambiare pelle rispetto a trent’anni fa, essere più inclusivo e attento ai cambiamenti, libero dai complessi di inferiorità sul versante culturale e dai tabù in materia di diritti, nuove famiglia e sessualità.

Al di là della facile ironia e di tutte le trovate situazioniste di CasaPound, è chiaro che Zaia con la sinistra ha poco da spartire: è uno storico sostenitore del federalismo e un oppositore della pianificazione in economia, e difficilmente lo vedremo prendere posizione in favore del salario minimo. Come tanti colleghi di partito si è reso protagonista di alcune uscite infelici, a volte addirittura velatamente razziste: nel febbraio del 2020, nelle fasi embrionali della pandemia, in un’intervista alla televisione locale Antenna Tre ha fatto una serie di dichiarazioni molto pesanti nei confronti della Cina e dell’igiene dei suoi abitanti, accusati di mangiare «topi vivi» e in generale lavarsi poco, scatenando la reazione del portavoce dell’ambasciata cinese in Italia, che ha definito le sue parole «calunnie» e «offese gratuite».

Basta sfogliare la sua biografia per capire che Zaia è convintamente un leghista della prima ora. Il suo retroterra culturale lo conosciamo: ha introiettato il verbo autonomista di Bruno Salvadori e dell’Union Valdôtaine, ha subito la fascinazione delle ampolle, delle corna e delle acque sacre di Pontida, è cresciuto nel mito della figura di Alberto da Giussano, il condottiero (forse) mai esistito che a Legnano, il 29 maggio 1176, grazie al suo valore, avrebbe deciso in favore della Lega Lombarda la battaglia contro l’esercito di Federico Barbarossa e che Umberto Bossi ha trasformato nel simbolo leghista per eccellenza.

Per ovvie ragioni, uno come Zaia non sarà mai accostabile a un’iconografia neppure lontanamente di sinistra; eppure i suoi sforzi e le sue aperture devono che essere lette come un segnale di progresso proprio per questo motivo: nel 2023 i diritti civili dovrebbero essere incontestabili e accogliere un consenso bipartisan, formando una sorta di zona franca della politica. Un Paese in cui un esponente politico viene considerato un pericolo sovversivo per la colpa di portare avanti battaglie assolutamente condivisibili, dal matrimonio egualitario al diritto di disporre liberamente del proprio corpo, be’, è un Paese poco a passo coi tempi. Zaia non è Berlinguer, e neppure Simone Weil o Samora Machel. Forse è semplicemente connesso al presente.

C’è una generazione di giovani (e di potenziali elettori) che chiede diritti civili, una legge decente sul fine vita, la liberalizzazione delle droghe leggere e, più in generale, un Paese meno paternalista: Zaia vuole sforzarsi di parlarle, provare a porsi in connessione con essa, non rinunciare alla contemporaneità. Tutto normale: non servono atti di sovversione, solo un po’ di buonsenso.