I numeri del naufragio che, ieri, ha coinvolto centinaia di migranti al largo di Steccato di Cutro, in Calabria, fanno impressione: al momento, secondo le stime divulgate dalla procura di Crotone, sono stati trovati i cadaveri di 63 persone, ma la conta dei morti potrebbe superare le cento unità.
I migranti erano ammassati su un caicco – una grossa imbarcazione bialbero in legno – che non ha retto alle condizioni proibitive del mare. Allo stato attuale, i soccorritori non hanno ancora potuto fornire un numero attendibile delle persone a bordo: secondo alcuni superstiti sarebbero stati circa 140 o 150. Come riporta Il Sole 24 Ore, l’accertamento è reso difficile dal fatto che non parlano neanche inglese. Sappiamo, invece, da dove provenivano le vittime: Iraq, Pakistan, Somalia, Afghanistan, forse Siria. Sappiamo anche il tragitto che hanno percorso: la barca era partita quattro giorni prima da Izmir, in Turchia, per raggiungere le coste calabresi. Una rotta che, da qualche anno, è sempre più frequentata: secondo dati del ministero dell’Interno citati da Repubblica, «nel 2022 solo in Calabria sono sbarcate 18mila persone, il 15 per cento degli arrivi complessivi in Italia, il doppio rispetto ai 9.600 del 2021».
A far scattare i soccorsi è stata una telefonata giunta verso le 4 al reparto operativo aeronavale della Guardia di finanzia di Vibo Valentia: secondo quanto ricostruito finora, nella telefonata non sono state fornite notizie dell’incidente a causa di un inglese poco comprensibile di colui che ha chiamato.
Le salme delle 60 vittime finora recuperate sono state trasferite al PalaMilone, un palazzetto dello sport del crotonese. Degli 80 superstiti, 60 vengono accuditi nel Centro richiedenti asilo di Isola Capo Rizzuto, altri 21 all’ospedale civile di Crotone, compreso un bambino di 9 anni. Inoltre, i Carabinieri di Crotone hanno fermato un uomo d’origine turca, sospettato di essere uno degli scafisti, e hanno ritrovato il documento di un altro uomo, ancora non rintracciato.
Come ha ricostruito Annalisa Camilli su Internazionale intervistando Sergio Scandura di Radio Radicale, «dal comunicato della guardia di finanza sembrerebbe che i naufraghi fossero stati considerati dei “migranti irregolari” e non dei “naufraghi”, e quindi che sia stata decisa un’operazione di polizia, non una vera e propria operazione di salvataggio, come dovrebbe avvenire in questi casi. Un cambiamento di approccio rispetto al passato, quando nel tratto di costa calabrese spesso sono intervenuti mezzi di soccorso della guardia costiera e della guardia di finanza, anche a molte miglia dalla costa». Rimane da capire come mai la guardia costiera non sia intervenuta alla ricerca dell’imbarcazione, nonostante fosse stata avvistata ore prima.
Dal punto di vista mediatico, la faccenda ha finito per travolgere il governo Meloni, anche a causa della legge sulle Ong approvata lo scorso 23 febbraio. Secondo diversi esperti di settore, il nuovo “codice di condotta” delineato da Piantedosi rende più difficile portare a compimenti i soccorsi in mare; ad esempio, la norma vieta espressamente i salvataggi multipli: se si soccorre una barca, bisogna subito andare via. Nel giorno in cui la legge è stata approvata dalla Camera (16 febbraio), di fronte alla Libia è avvenuto un nuovo naufragio in cui sono morte 73 persone, mentre i sopravvissuti sono stati riportati in Libia, un Paese che non riconosce la Convenzione di Ginevra per i rifugiati e in cui gli stranieri sono sottoposti a trattamenti inumani e torture.
E certo: c'è chi ha la “vocazione” alla santità e poi ci sono i migranti e la loro perversa “vocazione alle partenze”!
Così il Ministro degli Interni Piantedosi.
Magari pensa pure che i migranti abbiano una “vocazione” al martirio e siano contenti di morire nel Mediterraneo. pic.twitter.com/gndXZqGYm5
— Giuliano Granato (@Giul_Granato) February 27, 2023
A rincarare la dose ci ha pensato il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che da Crotone ha parlato di una fantomatica «vocazione alla partenza» da parte dei migranti, equiparandoli a degli irresponsabili pronti a mettersi in mare nonostante i rigori dell’inverno e le condizioni di navigazione proibitive, aggiungendoci pure il carico paternalistico: «La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli».
Basta passare in rassegna le condizioni politiche in cui versano i Paesi di provenienza dei naufraghi per restituire l’inconsistenza e la malafede di un’affermazione del genere. Un esempio? 28 dei 79 sopravvissuti sono afghani e, di conseguenza, convivono da quasi due anni con il pugno di ferro del governo talebano: persecuzione delle minoranze, repressione violenta delle proteste pacifiche, offensive ai diritti delle donne, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate per diffondere la paura sono il loro pane quotidiano. Liquidare una questione con un commento così superficiale sarebbe grave già per l’avventore dell’ultimo bar di provincia, figuriamoci per un ministro. Anche per oggi, il tema umanitario si è trasformato in carne da cannone per la propaganda di governo.