Il caso Valentina Petrillo e le polemiche sulle persone transgender nello sport | Rolling Stone Italia
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Il caso Valentina Petrillo e le polemiche sulle persone transgender nello sport

L’atleta è riuscita a conquistare una medaglia di bronzo nella specialità dei 400 metri alle Paralimpiadi, ma il suo podio sta suscitando indignazione

Il caso Valentina Petrillo e le polemiche sulle persone transgender nello sport

Valentina Petrillo, la prima atleta italiana trans che ha partecipato a una gara internazionale

Foto di Matthias Hangst/Getty Images

Mentre superava la linea dei 400 metri, tagliando così il traguardo finale, Valentina Petrillo sperava che i giornali, le radio e i social avrebbero parlato di come era stata caparbia nel conquistarsi quel terzo posto. Sapeva però che probabilmente non sarebbe successo, visto che in Italia – e un po’ ovunque – ogni volta che una donna transgender gareggia in competizioni sportive che prevedono di concorrere con altre donne il dibattito, assopito per un po’ sotto la cenere, si infiamma di nuovo.

Il mondo dello sport – e tutto il resto della società in generale – è “cresciuto” con l’idea di doversi organizzare tenendo conto di una netta divisione binaria, quella tra uomo e donna, determinata dalla condizione biologica di partenza della persona. Ma se da una parte la collettività sta provando a ridisegnarsi così da rispettare e includere al suo interno i diritti degli individui transgender, dall’altra lo sport si è mostrato totalmente impreparato a fare la stessa cosa. Generando così attorno a sé una confusione tale da riuscire a stordire anche il dibattito pubblico.

Come nel caso di Petrillo, che alcune persone hanno descritto sui social network come l’atleta che avrebbe «scippato il primo posto alle donne biologiche in gara alle Paralimpiadi».

La prima bufala è facilmente individuabile – e smontabile: ai mondiali di atletica paralimpica Valentina si è classificata terza. La seconda è più nascosta, perché implica la conoscenza di alcune informazioni preliminari. Partiamo dal contesto. Valentina Petrillo è la prima atleta italiana trans a partecipare a una gara internazionale. Nel 2021 la velocista ipovedente ci aveva rappresentato ai Campionati europei paralimpici di atletica leggera di Bydgoszcz, in Polonia, guadagnando il quinto posto nella finale dei 400 metri – e stabilendo un nuovo record per l’Italia – nella categoria T13, quella cioè per ipovedenti senza guida al fianco. Ma questo non è stato il suo unico successo.

Di lei però si è tornati a parlare di recente, principalmente per via della sua presenza alla decima edizione dei Campionati del mondo di atletica leggera paralimpica (che si sono conclusi a Parigi il 17 luglio del 2023). Evento durante il quale, come raccontato in apertura, l’atleta è riuscita a conquistare una medaglia di bronzo nella specialità dei 400 metri. Il suo podio ha scatenando polemiche e indignazione, dettate probabilmente da una scarsa conoscenza del regolamento: molti degli “oppositori” hanno infatti sostenuto che Petrillo non potesse gareggiare insieme alle altre donne. Dal punto di vista regolamentare, però, le cose non stanno esattamente così.

È vero che lo scorso marzo Sebastian Coe, presidente della World Athletics – la federazione mondiale di atletica leggera – ha dichiarato che possono prendere parte alle competizioni femminili solo le atlete trans che hanno cominciato la transizione da piccole. Escludendo, quindi, quelle che invece hanno intrapreso il percorso dopo la pubertà – periodo durante il quale alcuni critici sostengono che gli uomini maturino in maniera decisiva quei vantaggi su ossa e capacità cardiovascolari che gli impediscono di gareggiare in maniera equa con le donne. Una regola adottata già in precedenza dalle federazioni di nuoto, rugby e ciclismo. Fino a quel momento le donne transgender potevano gareggiare con altre donne a patto di tenere i livelli di testosterone sotto una certa soglia (cinque nanomoli per litro) per tutti i dodici mesi antecedenti alla competizione.

Va tenuto presente però che la competizione paralimpica non è giuridicamente controllata dall’atletica mondiale. Il suo regolamento è stabilito dal Comitato paralimpico internazionale (IPC), che permette ai singoli sport di decidere per sé in merito alle persone trans. Quindi, sostanzialmente, Valentina Petrillo ha il diritto di partecipare alle competizioni nazionali e internazionali nella categoria femminile, almeno fino a quando la regolamentazione della sua disciplina lo consente.

È difficile, infatti, che per certe situazioni così in evoluzione esistano delle regole immutabili. Lo stesso Coe ha precisato che la decisione della World Athletics potrebbe essere revocata da un momento all’altro. La scienza e gli studi in materia, infatti, non hanno mai dimostrato con certezza che la pubertà maschile comporti effettivamente dei vantaggi oggettivi per le atlete trans sulle concorrenti. Non esistono dati a sufficienza.

Come confermato da Eric Vilain, genetista esperto nel campo delle differenze dello sviluppo sessuale, per cui «sappiamo molto poco e non ci sono prove valide sui vantaggi delle donne trans e delle atlete rispetto alle coetanee cisgender». Anzi, come sostiene James Barrett, direttore della Adult Gender Identity Clinic di Londra, che tra l’altro sta collaborando a uno studio per conto del Comitato olimpico internazionale, «le donne trans potrebbero avere degli svantaggi causati dalla loro muscolatura più pesante». Un aspetto, quest’ultimo, che quelli che si dicono contrari all’inclusione delle donne transgender nelle competizioni sportive femminili sottolineano spesso. Emily Bridges, ciclista transgender recentemente esclusa da una competizione, ha deciso per questo di sottoporsi a uno studio scientifico focalizzato sull’impatto delle terapie ormonali sul fisico di un’atleta professionista. La stessa, dopo poco più di cento giorni dall’inizio del trattamento, ha riferito di aver notato un netto “peggioramento” nelle prestazioni aerobiche, che l’ha portata a percorrere distanze più brevi e con molta più fatica rispetto alle altre cicliste.

Tuttavia, sfruttando l’attuale situazione di incertezza, molte federazioni hanno preferito optare per l’esclusione, accontentando quella parte della politica e della società che spinge in questa direzione. Fuggendo così da quello che, come lo ha definito l’organizzazione sui diritti umani Human Rights Watch, è un dovere intrinseco: cioè la tutela dei diritti di atleti e atlete. Non sorprende dunque che più della metà delle persone transgender si senta esclusa o abbia smesso di praticare sport per la sua identità di genere (lo dice il report di Outsport, progetto cofinanziato dalla Commissione europea) e che più di un terzo degli individui coinvolti (non cisgenere) abbiano avuto un’esperienza negativa in ambito sportivo nei 12 mesi precedenti l’intervista (per quasi la metà dei casi si è trattato di donne transgender).

La discriminazione infatti comincia fin dai primi anni di scuola. In America, per esempio, negli ultimi tre anni decine di Stati hanno vietato alle ragazze transgender di partecipare a competizioni sportive scolastiche o universitarie per «tutelare lo sport e le categorie femminili».

È più raro, invece, che accada il contrario, e che quindi un uomo transgender finisca al centro di polemiche sportive: non si ritiene infatti che la sua partecipazione a competizioni maschili possa svantaggiare gli avversari. Lo ha confermato lo stesso Chris Mosier, noto atleta americano transgender che ha collezionato più di una vittoria nella categoria maschile di atletica leggera, ma che nonostante questo non ha mai subito lo stesso trattamento riservato alle colleghe transgender.

Invece «le donne transgender in particolare sono costantemente presentate come una minaccia, cosa che influenza negativamente la percezione pubblica e porta a maggiore discriminazione e odio», soprattutto in ambito sportivo. «I divieti nei loro confronti sono discriminatori e infondati e contribuiscono pericolosamente ad accrescere un clima di ostilità già esistente nei confronti della comunità trans», ha detto a Openly un esponente di Mermaids, ente benefico inglese che difende i diritti delle persone trans. «Nessun individuo dovrebbe essere costretto a scegliere tra essere se stesso e praticare lo sport che ama».