Dalla Supercoppa al wrestling, perché l’Arabia Saudita investe così tanto nello sport? | Rolling Stone Italia
Sportwashing

Dalla Supercoppa al wrestling, perché l’Arabia Saudita investe così tanto nello sport?

Il derby di stasera si inserisce in una strategia più ampia con cui la monarchia islamica punta a consacrarsi come colosso dello sport, insabbiando le continue violazioni dei diritti umani di cui è protagonista

Dalla Supercoppa al wrestling, perché l’Arabia Saudita investe così tanto nello sport?

Foto di Mattia Ozbot - Inter/Inter via Getty Images

Quello di stasera sarà un derby differente e dai risvolti politici profondissimi: per la terza volta nelle ultime cinque edizioni, infatti, la finale della Supercoppa italiana si disputerà in Arabia Saudita, nell’altipiano desertico di Ryadh.

Negli ultimi anni la capitale araba è diventata uno dei palcoscenici più rilevanti del calcio mondiale, un magnete capace di attrarre i club più importanti al mondo e di indurre gli organi di governo del calcio europeo a modificare la propria pianificazione. Il motivo? Semplice: fiumi di denaro.

Per dare un’idea di quanto la monarchia islamica abbia saputo infiltrarsi nella geopolitica del calcio è sufficiente pensare alla finale di Supercopa de España della scorsa settimana, ospitata dallo Stadio internazionale Re Fahd – usato principalmente per le partite di calcio dell’Al-Hilal, una delle squadre più importanti del Paese, e della Nazionale Saudita.

Per l’occasione, il format della competizione è stato interamente ridisegnato: i vertici della Liga hanno congegnato una final four che ha visto contrapposti non soltanto la vincitrice del campionato spagnolo e la vincitrice della Coppa del Re (come accadeva tradizionalmente), ma anche l’altra finalista della coppa e la seconda classificata in campionato.

Come ha scritto Pippo Russo su Domani, a settembre i sauditi hanno proposto alla Serie A di adottare l’identico format, mettendo sul piatto una contropartita irrinunciabile: 138 milioni per sei anni, al netto di tutte le spese per il trasferimento e l’alloggio, che verrebbero coperte interamente dall’organizzazione locale. Un’offerta che triplica quello del contratto vigente (8 milioni di euro per evento) e, comprensibilmente, fa gola alla Lega Serie A, che sta facendo di tutto per convincere i propri associati ad accogliere la richiesta saudita.

Più in generale, quando si parla di sport l’Arabia Saudita non bada a spese: la monarchia si è assicurata l’edizione dei Giochi invernali asiatici del 2029, a Tojena. Sarà il primo paese dell’Asia occidentale a organizzare l’evento. – c’è un dettaglio: Tojena al momento non esiste, sarà edificata interamente entro quella data, per un investimento da 500 miliardi di dollari, oltre il doppio di quanto è costata la Coppa del Mondo in Qatar.

La strategia saudita è mossa interamente dalla potenza finanziaria del Public Investment Fund (PIF), il fondo sovrano dell’Arabia Saudita, detentore di un patrimonio stimato di oltre 620 miliardi di dollari. Nel portafoglio di PIF, tra acquisizioni e partecipazioni, c’è di tutto, da Uber e Eni, da Marriot a Facebook, fino alla Walt Disney. Lo sport è, ovviamente, una voce ricorrentissima: ad esempio, il fondo possiede l’80% delle quote del Newcastle United Football Club e partecipazioni non dichiarate in McLaren (anche la Formula 1 occupa una posizione di rilievo tra i desiderata di PIF: nel 2021, gli arabi hanno ottenuto una tappa del mondiale a Jeddah).

Negli ultimi mesi, il fondo è stato accostato all’Inter come probabile successore di Suning, colosso cinese dell’elettronica e dell’e-commerce appartenente alla famiglia Zhang. Inoltre, rumors insistenti hanno parlato anche di una possibile acquisizione della World Wrestling Entertainment (WWE), la più importante federazione di wrestling al mondo.

Come ha ricordato Nicola Selitti su il manifesto, l’altro grande ambito sportivo cui PIF ha indirizzato le proprie iniezioni di liquidità è il golf: «durante lo scorso anno, il principe Mohammad bin Salman Al Sa’ud si è inventato la LIV Golf, un circuito parallelo a quello più importante a livello mondiale (il Pga Tour). Una specie di Champions League del green. Il primo evento si è tenuto a Londra con montepremi da 25 milioni di dollari. Hanno aderito alla nuova e facoltosa creatura alcuni fenomeni del golf come Dustin Johnson o Phil Mickelson, entrambi si sono visti offrire 100 milioni di dollari cash per lasciare il Pga Tour ed emigrare in Arabia Saudita – solo Tiger Woods si è ribellato alla lega di bin Salman, rifiutando un accordo da quasi un miliardo di dollari. Ma Woods è miliardario da anni, è una specie di zecca di stato, e si è potuto prendere il lusso di negarsi al principe».

Oltre alla volontà di consacrarsi come un colosso dell’intrattenimento globale, lo sport rappresenta anche il diversivo perfetto per nascondere le continue violazioni dei diritti umani da parte della monarchia saudita, seguendo i dogmi del cosiddetto sportwashing – una strategia usata da stati o governi che sfruttano lo sport per rendere moderna la propria immagine e far distogliere lo sguardo dalla pessima situazione dei diritti umani nel proprio paese.

Può avvenire tramite l’acquisto di squadre sportive, organizzazione di eventi o sponsorizzazione degli stessi, come accaduto non soltanto nel caso dell’Arabia Saudita, ma anche del Qatar. Come ha riportato Amnesty International, nel corso del 2022 sono state eseguite 150 condanne a morte; inoltre, solo pochi giorni fa, si è appreso che uno dei più antichi critici di bin Salman, il docente universitario Awad al-Qarni, rischia la pena capitale per aver espresso le sue opinioni su Twitter.

Lo sportwashing è una strategia che paga per due principali ragioni: da una parte, il grande potere economico che solitamente questi stati detengono per l’organizzazione di eventi così importanti; dall’altra l’idea, antica quanto diffusa, che “lo sport non deve mescolarsi con la politica”, come ha sostenuto Bernie Eccleston, imprenditore che reso la Formula 1 la gara che conosciamo oggi. Un’idea che ha origini ben più lontane e sopravvive sin dai tempi della finale di Coppa Davis tra Italia e Cile del 1973.

Lo sportwashing ha poi un pubblico specifico: quello delle persone appassionate e tifose, non necessariamente sensibili e informate su questioni così delicate e, a volte, persino infastidite dalle “interferenze” nella fruizione di uno spettacolo sportivo. A questo, ovviamente, si aggiunge un giornalismo sportivo spesso miope, concentrato solamente sull’evento, perché parlare dei diritti umani “spetta alla redazione esteri”.

Quando accenderemo la televisione, proviamo a non dimenticarcelo.