Calcio fa ancora rima con razzismo e omofobia | Rolling Stone Italia
Diritti

Calcio fa ancora rima con razzismo e omofobia

Secondo l'ultimo rapporto dell'UNAR, quello del pallone è ancora un mondo fatto di discriminazioni

Calcio fa ancora rima con razzismo e omofobia

Il centrocampista francese Paul Pogba, oggi alla Juventus, si inginocchia per sostenere la causa di Black Lives Matter durante Manchester United – Bournemouth, 4 luglio 2020

Foto di CLIVE BRUNSKILL/POOL/AFP via Getty Images

L’immagine della pallavolista azzurra Paola Egonu in lacrime, dopo la vittoria con gli Stati Uniti ai Mondiali femminili, è la testimonianza di un Paese che deve ancora fare i conti con il razzismo diffuso e la discriminazione delle minoranze.

 

 
 
 
 
 
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Calcio fa ancora rima con discriminazione

Quello di Egonu non è purtroppo un caso isolato. In Italia sono numerosi gli episodi di discriminazione rilevati in ambito sportivo. Le cronache sono piene di racconti, soprattutto nel caso del calcio, di cori di stadio o comportamenti discriminatori e razzisti nei confronti di tutte le minoranze. Gli insulti razzisti scagliati contro Mario Balotelli, Kalidou Koulibaly, Victor Osimhen o le offese antizigane (“sei uno zingaro”) lanciate contro Edin Dzeko, Slatan Ibrahimovic, Dusan Vlahovic e Ivan Perisic, che hanno causato molto clamore mediatico, sono purtroppo accompagnati da molti altri episodi di micro e macro discriminazione quotidiana che tendono a restare per lo più invisibili.

Dai cori razzisti dei tifosi del Verona contro quelli del Napoli alla rissa in campo durante una partita del campionato di seconda categoria, sfociata in insulti razzisti contro un giocatore di origini ghanesi del Poggiardo da parte dei giocatori e del dirigente del Tricase. Un altro episodio simile è avvenuto poche settimane fa a Varese, dove, dopo che un giocatore di una squadra under 16 del Cas Sacconago è stato definito “negretto” dall’allenatore avversario del Gallarate, i compagni di squadra del sedicenne di origine marocchina hanno deciso di abbandonare il campo, in segno di solidarietà. E ancora, un altro caso di cori razzisti in una partita di calcio under 14 tra l’Atletico Lodigiani e l’Atletico Zagarolo 2020, stavolta ai danni di un giocatore nero, offeso da un suo avversario con l’epiteto “sporco ne*ro”. Anche i pregiudizi sulle donne sono duri a morire in questo sport: ne è la conferma quanto accaduto a maggio scorso nel Picentino, quando al termine di una partita del Campionato under 15 provinciale, un arbitro donna, nera e di pochi anni più grande dei calciatori, udiva i membri della squadra del Pontolliese Gazzola urlare dagli spogliatoi insulti verso di lei: “Campi di cotone, questa!” e aggiungere “Campi di concentramento”. 

Che il calcio sia tutt’oggi un ambiente profondamente intriso di razzismo, sessismo e maschilismo è cosa nota non solo al pubblico, agli osservatori esterni ma anche ai giocatori stessi.

L’ex stella francese del calcio, Patrice Evra, per esempio, ha parlato, in un’intervista per un podcast online, del problema delle discriminazioni di stampo omofobo presenti nel calcio, a cui lui ha assistito in prima persona. «Essere gay nel calcio è ancora un tabù», ha detto. «Non puoi essere un giocatore gay, la gente impazzirebbe… ed è un peccato». Un problema, quello delle discriminazioni e della mancanza di inclusione, legato a doppio filo a quello della salute mentale: «Oggi nel calcio non si può essere vulnerabili ed è per questo che non si riesce a parlare a sufficienza di benessere mentale. Un problema radicato contro cui ho sempre combattuto», ha confermato Evra.

Il rapporto di UNAR, Uisp e Lunaria sulle discriminazioni nello sport

Giovedì 20 ottobre è stato presentato a Roma il rapporto pilota “Le discriminazioni nel mondo dello sport”, realizzato dall’Osservatorio Nazionale contro le discriminazioni nello sport, promosso dall’UNAR – Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali della Presidenza del Consiglio dei Ministri , Uisp (Unione Italiana Sport per Tutti) APS e Lunaria, due associazioni del terzo settore attive rispettivamente nel campo dei diritti umani e civili e nel settore sportivo.

L’Osservatorio Nazionale contro le Discriminazioni nello sport è nato, su spinta delle Istituzioni europee, con l’intento di offrire un contributo alla strutturazione di un’attività sistematica e standardizzata di monitoraggio delle forme di discriminazione nello sport, sia a livello professionale che dilettantistico, comprese quelle che spesso rimangono sotto traccia.

Il lavoro di monitoraggio delle episodi di discriminazione compiuti sul territorio nazionale tra il 1° giugno 2021 e il 30 giugno 2022 è stato realizzato grazie all’utilizzo di diverse fonti: segnalazioni pervenute al Contact Center di UNAR o segnalazioni dirette da parte delle vittime o dei testimoni pervenute all’osservatorio di Cronache di Ordinario Razzismo; segnalazioni raccolte sul territorio da parte degli operatori UISP di dieci città; notizie di stampa pubblicate sui media tradizionali; segnalazioni e denunce diffuse sui social network; avvisi di sanzioni disponibili sui siti delle principali federazioni sportive; referti arbitrali.

Complessivamente sono stati rilevati e analizzati 211 casi (in media, 16 casi al mese), suddivisi per tipologia di discriminazione (violenza fisica, violenza verbale o danni alle cose), area geografica, disciplina e livello sportivo, motivo discriminatorio, genere, età e nazionalità delle vittime, professione ed età del soggetto o gruppo discriminatore, tipologia di reazioni delle vittime e di sanzioni adottate. Da quello che emerge dal report, la maggioranza delle discriminazioni registrate sono ascrivibili alla violenza verbale (l’86,3% del totale). L’analisi della distribuzione regionale delle discriminazioni documentate mostra invece che oltre la metà (il 52,5%) dei casi è concentrata in quattro regioni: Lombardia (16,1%), Lazio (15,6%), Veneto (10,9%) e Campania (9,6%). L’unica regione che non registrato nessun caso è la Valle d’Aosta. I moventi più ricorrenti riguardano le origini nazionali o ‘etniche’ (40,3 %) o i tratti somatici delle vittime (37,9%). Altri moventi sono il genere (10%), lo stato di abilità (3,8%), l’appartenenza religiosa e l’orientamento sessuale (1,4%).

Nel 5,2% dei casi segnalati sono stati indicati moventi di tipo diverso afferenti alle caratteristiche fisiche delle vittime, in particolare all’obesità. I giovani nella fascia d’età compresa tra i 18 e i 29 anni sono i più colpiti (48,8% del totale). Le vittime minorenni rappresentano invece il 14,7% dei casi segnalati. Nella maggior parte dei casi documentati (133), pari al 63% del totale, la discriminazione ha colpito persone di genere maschile; le vittime di genere femminile sono risultate decisamente inferiori (8,5% dei casi documentati). Probabilmente, si legge nel rapporto, questa differenza non dipende dal fatto che le donne subiscono realmente meno discriminazioni, ma dal trend che si può osserva anche a livello sociale, ovvero che le donne che non denunciano gli abusi per paura di non essere credute.

Tra gli autori dei comportamenti discriminatori, i giocatori e i gruppi di tifosi sono responsabili della grandissima parte dei casi registrati: rispettivamente il 31,8% e il 36,5% dei casi. Nel complesso, sono imputabili a questi due gruppi oltre il 70% dei casi totali di discriminazione. Meno ricorrente (9,5%), ma comunque significativa per il loro particolare ruolo di responsabilità, è la presenza di discriminazioni compiute da parte di dirigenti sportivi, segno che anche a livello istituzionale c’è ancora molto lavoro di formazione e di sensibilizzazione da fare.

La grandissima maggioranza delle discriminazioni documentate (78,7%) riguarda il calcio, sport nazionale maggiormente praticato sia a livello professionale che amatoriale, e al centro dell’attenzione dei media. Seguono il basket (4,3%), l’atletica e la pallavolo (1,9%).

Un dato incoraggiante che emerge dal monitoraggio è l’elevata percentuale di vittime che hanno deciso di denunciare agli organi competenti la discriminazione subita (66%) o di denunciare comunque pubblicamente l’accaduto (14%). Una persona su 5 (20%) ha invece deciso di non compiere nessun tipo di denuncia. In direzione opposta vanno i dati relativi alle sanzioni adottate: nella gran parte dei casi monitorati (62%) non è stata documentata alcuna sanzione. Nel 17% dei casi risulta invece adottata una sanzione a carico della società sportiva di riferimento o appartenenza dell’autore della discriminazione o a carico di singoli soci e tesserati. Il Daspo è stato adottato solo nel 3% dei casi.

Il ruolo dell’UNAR

Abbiamo fatto qualche domanda a Mattia Peradotto, giovane direttore generale dell’UNAR, in merito alla genesi, ai risultati del report e sul futuro dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni.

Da dove è nata l’esigenza di fare un report per mappare le discriminazioni in ambito sportivo?
La legge assegna all’UNAR la responsabilità di monitorare e raccogliere le segnalazioni di casi di discriminazione, l’Ufficio lo fa tramite un numero verde nazionale (800 90 10 10, ndr) e tramite il suo Contact Center. Il focus sul mondo sportivo è un elemento innovativo (l’Osservatorio Nazionale istituito da UNAR è il primo a livello europeo) e che si è reputato utile perché lo sport – da quello di base dilettantistico a quello professionista – è stato negli anni un settore dove sono emersi episodi macroscopici di discriminazione, come i cori negli stadi ad esempio, ma può essere volano di grande integrazione e parità, se trasmette messaggi e una narrazione positiva.

Come emerge anche dal report, molto casi restano invisibili. Come mai secondo lei?
L’under reporting (ossia della tendenza delle vittime di reati d’odio a non denunciare i crimini subiti ) è un problema atavico e che si deve cercare di superare tramite 2 strade: rafforzare la fiducia nella capacità di intervento e di risposta delle Istituzioni e comunicare e rendere consapevoli le potenziali vittime di discriminazioni che ci sono strumenti che possono usare per denunciarle. Va quindi aumentata la consapevolezza di “cosa” sia una discriminazione per far sì che chi ne è vittima possa decidere sempre di segnalarla e chiedere supporto alle Istituzioni e allo Stato.

Nel 2017 Giorgia Meloni chiese la chiusura dell’UNAR tramite un’interrogazione parlamentare. Pensa che la sopravvivenza dell’Ufficio sia in pericolo?
No. L’Ufficio ha compiti e deleghe specifiche assegnate dalla Legge in recepimento di Direttive comunitarie e a quei compiti risponde e in quel perimetro opera per tutelare la parità di trattamento di ogni persona.

Perché è importante la Strategia Nazionale LGBT+ varata dal governo Draghi?
Le diverse strategie nazionali e i diversi Action Plan di cui il Paese si dota e che si muovono nel solco delle Strategie europee sono cornici di azione e inquadramento delle attività fondamentali. La strategia nazionale di inclusione RSC, la Strategia Nazionale LGBT+, così come il Piano Nazionale contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza, che è in stesura, sono condizionalità abilitanti anche per l’accesso a specifici fondi comunitari e sono documenti su cui è elevata l’attenzione internazionale anche nell’ottica di posizionamento dell’Italia nei ranking europei e globali in materia di diritti. Penso che fare lo sforzo di tracciare linee strategiche di intervento sia sempre un elemento positivo per guidare e gestire i diversi fenomeni che si muovo a livello sociale.