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Metà dei migranti morti in mare non ha un nome, «un oltraggio che deve finire»

Negli ultimi anni 15mila persone decedute nel Mediterraneo non sono state identificate. Il medico legale Cristina Cattaneo lavora per dare un volto a questi uomini e donne, e ora racconta le loro storie in un libro

Alcune delle bare dei migranti morti durante il naufragio di Lampedusa del 2013, tra loro anche decine di bambini. Foto Tullio M. Puglia/Getty Images

È possibile amare profondamente il proprio lavoro anche se questo ti porta ad avere che fare ogni giorno con persone morte. Lo si capisce dalle prime parole scambiate con Cristina Cattaneo, e ancora meglio leggendo qualche pagina del suo nuovo libro, Naufraghi senza volto. Edito da Raffaello Cortina, racconta la vita di tutti i giorni della dottoressa Cattaneo, impegnata dal 2013, quando emotivamente si fece coinvolgere e travolgere dal terribile incidente marino di Lampedusa, che costò la vita a 368 persone. Da allora con il suo laboratorio di antropologia e odontologia forense dell’università Statale di Milano, chiamato Labanof – «un nome vagamente sovietico», ironizza lei -, si impegna a cercare di identificare le centinaia di morti che ogni anno sono ripescati nel mar Mediterraneo.

Non è la sua sola attività: si è occupata e si occupa di decine e decine di altri casi, dagli omicidi più famosi ed efferati che riempiono le pagine di cronaca nera alle morti più “comuni”. Ma, certo, la vicenda dei migranti ha mosso qualcosa in lei, che poi l’ha spinta a raccontare la sua esperienza in un libro che risulta a lunghi tratti commovente. Perché mosso dall’urgenza di raccontare le storie di chi muore senza nemmeno avere – per noi – un nome. Naufraghi senza volto ha già fatto registrare un primo successo, perché dalle sue pagine è tratta la storia del giovane migrante del Mali morto nel 2015 al largo della Sicilia e trovato – dalla stessa Cattaneo – con una pagella cucita nella tasca. Un episodio che, grazie a una splendida vignetta di Makkox sul Foglio, è diventato di dominio pubblico. Proprio quello che sperava l’autrice (che devolverà i ricavati del libro alla Comunità di Sant’Egidio).

La vignetta di Makkox “tratta” dal libro di Cristina Cattaneo

Perché è importante che si parli di queste storie?
Perché siamo davanti a un disastro di massa senza paragoni nelle epoche recenti, eppure rimaniamo inerti. Non facciamo quello che, per esempio, sarebbe normale, quasi scontato se dovessimo fronteggiare un disastro aereo. Identificare i morti è fondamentale anche per i vivi, una questione di rispetto anzitutto per le famiglie: è un loro diritto sapere.

Nel libro scrivi che i morti hanno un potere di racconto diverso dai vivi?
Proprio così. Chi ce l’ha fatta ci racconta una versione, mentre conoscere le storie di chi ha avuto la peggio e vedere che nelle loro tasche sono uguali a noi aiuta molto ad avvicinare ed empatizzare. Di questi tempi mi pare ce ne sia un gran bisogno.

Ti aspettavi simili reazioni sulla vicenda del ragazzo trovato con la pagella addosso, che è divenuta all’improvviso virale?
No, ma sto imparando a capire quanto siano particolari le dinamiche mediatiche. Sono cinque anni che lavoriamo su questo tema e avevamo già parlato di quello e altri casi, di tante storie altrettanto commuoventi. Ma questa volta è successo qualcosa di inedito: la vignetta di Makkox ha fatto partire tutto quello che non eravamo riusciti a innescare noi a livello di opinione pubblica. Potere dell’immagine. Sono molto felice che sia successo.

Dal 2001 si sono perse oltre 30mila vite e oltre la metà non sono state identificate. La cifra mette i brividi.
Sono dati di uno studio dell’università di Amsterdam, e sono solo la punta dell’iceberg. Pensiamo al famoso “naufragio dei siriani” dell’11 ottobre 2013: in Italia sono arrivati 25 cadaveri circa, ma erano tantissimi su quel barcone. Purtroppo in mare c’è ancora tanta gente.

Cristina Cattaneo fuori dal suo ufficio

Dove sono oggi i corpi di chi viene trovato in mare?
Parliamo di migliaia di lapidi senza nome sparse nei cimiteri di tutto il Sud Europa, contrassegnate solo da un numero. È quello che dovrebbe permettere in futuro di associare quel corpo a un nome, in caso un giorno si riuscirà ad associare i prelievi fatti durante l’autopsia al Dna di un parente che si presenti a cercare il suo caro.

È già avvenuto?
Certo, anche se non parliamo di numeri grandi. Noi lavoriamo principalmente sui naufragi più grossi, quello di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e quello che chiamiamo disastro di Melilli, avvenuto al largo della Libia il 18 aprile del 2015. Dopo anni, sulle centinaia di persone che hanno perso la vita in quei frangenti, abbiamo identificato grazie ai prelievi del Dna una quarantina di persone, che abbiamo restituito ai loro parenti.

Per identificare i morti servono per forza i vivi?
Sì, la prassi è questa anche per i disastri aerei. Tu hai un campione di Dna di un morto, che non sai chi sia, e allora serve che qualcuno ti porti lo spazzolino o un altro effetto personale per fare matching. E poi fotografie, radiografie o altri esami: tutto è utile. Chiaro, rispetto ad altri tipi di incidente, qua è tutto più complicato, perché spesso la famiglia sta nel Paese di origine e magari aveva perso da tempo traccia degli spostamenti del loro caro. Eppure non è un esercizio vano, noi andiamo avanti.

Quando è iniziato il vostro lavoro?
Nel 2014, quando l’ufficio del Commissario straordinario per le persone scomparse ha deciso di iniziare in maniera stabile le attività per cercare i dispersi. Allora erano già passati più di dodici mesi dai fatti di Lampedusa, e questo ha complicato non poco le cose. Eppure, anche a distanza di anni, c’è gente che cerca i suoi morti. Lo vediamo anche sulle vicende di casa nostra. Ogni anno, sulle circa mille autopsie che effettuiamo qua a Milano, due cadaveri non vengono riconosciuti, e vengono sepolti come sconosciuti. A volte li identifichiamo dopo 10 o 15 anni, grazie a un parente che decide di farsi vivo.

Soccorso di migranti nel mar Mediterraneo

Cosa ti colpisce maggiormente della vicenda migranti, delle loro morti?
L’oltraggio. Noi siamo abituati a lavorare su chi ha subito violenza, e che per questo motivo deve essere accudito. Nel caso dei migranti non avviene: nessuno si vuole prendere davvero cura di queste persone che hanno perso la vita. Trovo che sia un’ingiustizia estrema, tragico che si aggiunge al tragico.

Nel libro dedichi molte pagine all’importanza degli effetti personali per capire e raccontare le storie di chi non ce l’ha fatta. Perché?
Perché se decidi di tenere con te un oggetto durante un momento importante e pericoloso come una traversata, significa che ha un valore, è una parte di te e della tua vita. Penso al sacchetto della terra di casa che uno si portava dietro quando lo abbiamo trovato o ai guantini di Spider-Man che ho visto a un bambino, fino alla “famosa” pagella, e poi le tesserine della biblioteca o da donatore di sangue, anelli, croci o rosari: in questi anni ho trovato di tutto. Mi hanno aiutato a capire chi avevo di fronte meglio di qualunque racconto orale.

I social aiutano?
Facebook ci è servito per identificare alcuni cadaveri di Lampedusa. Se sono ben conservati attraverso l’osservazione della forma del viso, di nei, cicatrici o ancora meglio tatuaggi si può fare un confronto con le foto dei profili personali delle vittime indicate dai parenti. Bisogna utilizzare lo strumento con cautela, ma può essere utile.

Cosa rispondi a chi ti dice – sono abbastanza sicuro sarà successo – “con tutti i problemi che abbiamo in Italia, pensi ai morti stranieri”?

In effetto l’ho sentita quella frase. Ma sono un medico e ho un codice deontologico: occuparsi dei corpi – anche quelli senza vita – è una forma di cura, che spetta a tutti indipendentemente dal Paese di origine.

Vi occupate anche dei sopravvissuti. Dalle visite mediche cosa ha capito del momento della traversata?
Che può succedere di tutto. Che non si mangia e non si beve per giorni, si subisce spesso violenza, magari ci si siede sul carburante e si rimane ustionati, o, nel caso delle donne, si può essere violentate.

I vostri referti sono utili anche per stabilire l’età di un richiedente asilo, determinante per assegnare o meno la protezione da parte delle commissioni giudicanti.
Se sei sotto i 18 anni per una legge europea sei preso in carico, e hai diritto all’istruzione oltre a vitto e alloggio: per questo è così importante dire con certezza se uno abbia più o meno di 18 anni. Fino a qualche tempo fa c’erano metodi poco “scientifici” per stabilirlo: si effettuava solo una lastra alla mano e da lì si desumeva l’età, questo spesso andava a sfavore dei richiedenti asilo. Ora ci sono nuovi protocolli, che qua a Milano sono seguiti in maniera rigorosa, per avere la ragionevole certezza se uno sia maggiorenne o meno.

Hai incontrato molte persone che hanno “alloggiato” nelle carceri libiche?
Molte, e sono quelle che lasciano i segni più grossi sui corpi delle persone. Ho visto tracce di ogni tipo di tortura, dalle elettrocuzioni alle sospensioni al soffitto per mani o piedi, bastonate, giochi con i coltelli arroventati. Storie allucinanti.

Chiusura off topic. Ci dici un libro, un film, una serie che racconta bene il tuo lavoro di medico legale, e uno invece che non ti piace?
Per quanto riguarda il secondo, senza ombra di dubbio tutti quei salotti o talk show che ricostruiscono casi di cronaca senza sapere di cosa stanno parlando. Un racconto fatto bene, invece, è quello dei libri di Kathy Reichs, a cui è ispirata la serie Bones. Guardo poco, però, i prodotti di questo tipo: mi basta quello che già vedo tutti i giorni.

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