Di male in Salvini: l’amore degli italiani per la democrazia autoritaria | Rolling Stone Italia
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Di male in Salvini: l’amore degli italiani per la democrazia autoritaria

Roy Paci mostra l'immagine di un amico aggredito dagli agenti a Catania durante una contestazione al ministro. Una riflessione sul potere che a tanti un tempo non piaceva, e su come potremmo iniziare presto a rimpiangerlo

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Foto di Ernesto S. Ruscio/Getty Images

Quando si stava peggio, si stava meglio. Non è il facile, solito rigurgito nostalgico di chi si crogiola nell’estetica di un passato che in quanto tale non torna più… e allora com’era bello quando non esistevano i social ed eravamo liberi dagli smartphone. No. È una presa di coscienza concreta e dolorosa, questa. Il risveglio improvviso di chi, stupefatto da tanta bruttezza, ha finito per non scorgere più nulla di bello. In un Paese nel quale il ministro dell’Interno si reca in una delle discoteche più famose d’Italia e lì si mostra a petto nudo in consolle in compagnia del deejay e si fa immortalare festante con un drink in mano come il primo degli adolescenti-minchia, viene spontaneo rimpiangere persino la bandana bianca di Silvio Berlusconi a Porto Cervo. A vantaggio del vero, il Berlusca troppo chic non lo è mai stato, qualcuno ne accostò il portamento a quello del fattorino tipo di una nota gioielleria nostrana, eppure oggi che l’esecutivo è minacciato da campioni del cattivo gusto, a partire dalle mise posticce sfoggiate in parlamento, lo si rimpiange. Si stava meglio quando si stava peggio, appunto. Col doppiopetto blu e un po’ di malcelato tacco nelle suole.

Prendiamo spunto per la riflessione da un post pubblicato di recente da Roy Paci sul suo profilo Instagram. Nella foto si vede un ragazzo braccato da un energumeno non identificato, che con forza gli cinge il collo nell’atto di volerlo allontanare. Ma da cosa? O meglio: da chi? Da Matteo Salvini, pare. «Quello che vedete in foto è uno dei miei più grandi amici, il grande attivista e pacifista Barry, irlandese di adozione catanese che solo per aver alzato in aria le mani e urlato ‘peace’ durante il passaggio dei carri funebri leghisti è stato quasi strangolato dai galoppini del ministro dell’interno», ha riportato il trombettista.

 

 
 
 
 
 
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Ormai è noto, anche se in troppi fingono di non saperlo: Matteo da Milano non ama essere contestato. Qualcuno ricorderà, forse, la ragazza a cui venne levato il cellulare poiché, chiedendo un selfie al ministrone, gli ricordò delle sue sortite nordiste contro i terroni. Alla giovane fu sequestrato il telefonino e le fu intimato di cancellare quello scambio. E ancora, gli striscioni contestanti appesi a qualche balcone da Bergamo a Salerno, fatti presto saltare.

La sua avversione al confronto e alla dialettica, linfa vitale per la democrazia in uno stato di diritto del quale si voglia avere rispetto, è palese a partire dalla tv, non luogo nel quale al nostro piace sgolarsi senza che nessuno possa smentirne gli allarmi, le promesse impossibili da mantenere, le grida. Lungi da noi voler ricorrere al solito accostamento fascista, anche se i metodi in effetti ne ricordano lo slancio. Vorremmo evitare di tirare in ballo il paragone ormai ritrito, anche perché qui nessuna bonifica potrebbe accorrere a nobilitare l’operato di chi qualche errore, in pieno cliché da corso e ricorso storico, lo sta commettendo. Fosse anche solo per le sua veemenza espositiva (in effetti, talvolta, mancava giusto il balcone. Forlì a parte).

Il colonialismo, almeno quello inteso alla vecchia maniera, è stato superato e dunque nemmeno il mito della razza bianca superiore può confondere le idee. Giusto qualche rublo può lordare le acque, ma in questo caso -sia chiaro- il colonialismo è al contrario. Lungi da noi, quindi, il paragone ritrito. Fosse anche solo perché di quello mancano i risvolti positivi, appunto: magari i treni arrivassero in orario! Eppure, quello dell’allontanamento coatto del contestatore, puzza tanto (troppo) di squadraccia.

Quando si stava peggio, si stava meglio. In fondo, ai tempi dell’uomo forte di Arcore al più era l’uomo forte a prendersi una statuetta del Duomo di Milano in faccia (al caporal Salvini, naturalmente, auguriamo solo bacioni). Certo, l’editto bulgaro, la P2, lo stalliere sospetto, le ragazze stipendiate dal ragionier Spinelli e Topolanek immortalato nudo nella magione sarda non gli fecero troppo onore. Ma si stava meglio. È un dato di fatto.

Erano meglio persino i golfini incoerenti di Bertinotti. Le barche di D’Alema. Più sopportabile anche la noia di Prodi, le passeggiate troppo borghesi di Mario Monti e consorte verso la messa domenicale, le foto di Agnese che in assenza del marito portava i bambini in bici, esempio di madre impeccabile, come retorica cristiana suggerisce.

Catania, Salvini contestato: allontanati supporter del ministro

La contestazione era permessa, almeno. E, a memoria, immagini come quella pubblicata da Roy Paci non se ne vedevano (al netto di quel che accadde a Genova col G8, e lì il fatto fu così grave che questa parentesi non può certo bastare, in effetti). Oggi, invece, siamo qui, ostaggi della tracotanza di un signore dal gusto dubbio, la cui arroganza pare aver conquistato circa il 40% dei nostri compaesani, rapiti dal suo carisma fattivo. Pratico. Dallo slancio populista. Dalle sue felpe brutte. Dal tifo milanista. Dalla risposta semplicista. E non importa se poi sia irrealizzabile perché intanto lui la risposta l’ha data. E le persone bramano questo. Una risposta.

Quando si stava peggio si stava certamente meglio. Non è questione di facile rimpianto, ma di constatazione amara.

C’è chi suggerisce di non dare peso eccessivo a quel che bolla come fenomeno passeggero. Chi è pronto a scommettere sulla scarsa durata dell’evoluzione celodurista che colpisce il nostro Paese in questa estate strana. In fondo, si dice, certe dittature sorgevano dalle ceneri di Weimar, dalla frustrazione immensa per un conflitto perso. L’umiliazione. Non ci troviamo in circostanze tanto gravi. Eppure, i sondaggi parlano chiaro. Anche se la nostra disgrazia non è una guerra persa, ma un vuoto pneumatico di idee e proposte politiche. Il vuoto che consente a chi respinge il confronto con la forza di prosperare. Se per Goya il vuoto della ragione generava “soltanto” mostri, qui è il vuoto delle dirette Facebook a generare tour estivi su moto ad acqua della polizia per figli un tantino viziati. Non lamentiamoci se un giorno sarà troppo tardi, quindi. Se Russia e Cina faranno di noi la colonia che noi facemmo dell’Etiopia schiava al grido di quella faccetta nera che torna ad echeggiare più attuale che mai in questi tempi di sbarchi mancati, anche se di liberazione non si parla più. Quando si stava peggio, si stava meglio. Questo è tutto quello che potremo dire.

Ps: si potrebbe naturalmente obiettare che gli altri protagonisti e comparse della scena politica odierna, ma pure quella passata, non hanno certo dato gran prova di sé. Ma ogni giorno ha la sua pena e soprattutto il suo potente, più potente degli altri, del quale occuparsi.

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