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Di cosa parliamo quando parliamo di endometriosi

In Italia almeno 3 milioni di donne soffrono di endometriosi. Alessia è una di queste, costretta dalla malattia a vivere con un sacchetto al rene a soli 30 anni. Marzo è il mese dedicato a lei e a tutte le donne che non vogliono più soffrire in silenzio

Di cosa parliamo quando parliamo di endometriosi

Foto: Oleg Ivanov/Unsplash

Marzo è un mese giallo, come le mimose che ogni otto infestano le case e i negozi. Marzo però è giallo, perché è questo il colore dell’endometriosi. Una malattia invisibile: non si vede da fuori, non se ne parla, non si conosce. Eppure, è diffusissima: si stima che colpisca una donna su dieci in età fertile. Sono tre milioni in Italia, tenendo conto solo delle diagnosi conclamate.

L’endometriosi è una patologia cronica caratterizzata dalla presenza anomala, all’esterno dell’utero, di tessuto endometriale, una mucosa di rivestimento normalmente presente nella cavità interna dell’utero. Può portare infertilità, perdite di sangue durante orinazione e defecazione, difficoltà nei rapporti sessuali. Soprattutto, l’endometriosi causa un dolore cronico e persistente durante le mestruazioni, che in ogni caso aggravano i sintomi. Nelle forme più gravi, il dolore è quotidiano, come nel caso di Alessia.

Alessia Astolfi ha trent’anni, da quando ne aveva dodici convive con l’endometriosi: «Ho iniziato a stare male con l’arrivo del ciclo, all’inizio non gli davo troppo peso. Con il tempo i dolori però sono diventati insopportabili». La malattia negli anni degenera e non esiste una cura, solo trattamenti palliativi. Il più comune è la terapia ormonale tramite l’assunzione della pillola anticoncezionale. Alessia però quando la prendeva stava peggio. Per questo, da anni è costretta ad assumere forti antidolorifici. Prima, solo durante le mestruazioni, adesso ogni giorno, per stare in piedi.

Soprattutto, l’endometriosi ha «completamente distrutto» l’uretere di Alessia, che deve vivere con un sacchetto attaccato al rene sinistro. L’unica alternativa per lei è l’intervento chirurgico e quello in programma il 31 marzo sarà l’ottavo della sua vita. Dovrà venire un medico dall’estero, perché qui non ha trovato nessuno disposto a operarla, nemmeno nei centri specializzati: «Mi hanno detto che per loro posso stare con il sacchetto a vita. Sono troppo grave, non si azzardano. Sentirsi dire a trent’anni che l’unica soluzione è vivere così…».

L’endometriosi non è una malattia rara. Eppure, diagnosticarla è un processo lentissimo. Alessia gira medici da quando aveva sedici anni, in cerca di risposte: «Avevo vomito, svenimenti. I miei esami però erano perfetti e quando un medico non trova niente dalle analisi, tu stai bene». Le hanno ripetuto talmente tante volte che era pazza, sola, in cerca di attenzioni che alla fine ha iniziato a crederci un po’ anche lei, che i dolori fossero solo nella sua testa. «A sedici anni la mia ginecologa – tra l’altro anche lei affetta da endometriosi – mi ha prescritto degli psicofarmaci. Diceva che non volevo andare a scuola».

Secondo la Fondazione italiana endometriosi, in media ci vogliono tra i sette e gli otto anni per ricevere una diagnosi. Per Alessia ce ne sono voluti cinque: «Il mio attuale ginecologo mi ha dato la diagnosi a diciassette anni. È stato un miscuglio di emozioni, ero molto sollevata perché finalmente sapevo cosa combattevo, il nemico aveva un nome».

Per riconoscere e trattare la patologia bisogna rivolgersi a centri specializzati e non esistono esami specifici in grado di riconoscerla. Per gli esami del sangue, per esempio, vengono usati dei marcatori tumorali, che normalmente servono per la diagnosi del cancro all’ovaio. Quelli di Alessia sono perfetti, come sono perfette le ecografie transvaginali: «Nel mio caso l’endometriosi è molto in profondità, va a coinvolgere anche i nervi, quindi non si vede nulla».

Ogni volta che ha bisogno di una risonanza magnetica – ogni sei mesi, in passato anche ogni due – Alessia deve partire da Torino e farsi 260 chilometri fino a Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. Oltre al viaggio, Alessia deve sostenere interamente i costi dell’esame, che in alcuni centri privati arriva a costare 500 euro: «Lo Stato non riconosce nulla, solo l’esenzione per pochissime prestazioni e solo per chi è al terzo o quarto stadio della malattia. La risonanza è esclusa, ma ne abbiamo bisogno».

Lasciate sole dalle istituzioni, dalla ricerca, Alessia e la sua amica Vania Mento – affetta dalla stessa malattia – hanno deciso in un pomeriggio di aprile, un anno fa, di fondare un’associazione: La voce dell’endometriosi. «L’obiettivo è quello di supportare le donne, aiutarle a non arrendersi. A volte nessuno le ascolta, non solo i medici, nemmeno la famiglia». Una delle loro iniziative più importanti è il Telefono giallo: «Ovviamente non diamo consigli medici. Diamo appoggio e consigliamo il centro specializzato più vicino a cui rivolgersi». La maggior parte delle chiamate viene da adolescenti, qualcuna anche da donne di quaranta, cinquanta anni. Spesso hanno passato gran parte della loro vita nel dolore senza saperne il motivo: «C’era tanta ignoranza, non se ne parlava. Quando dall’altra parte c’è qualcuno che ti capisce è tutto un po’ più semplice».