Dentro l’assedio di Kunduz | Rolling Stone Italia
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Dentro l’assedio di Kunduz

Dopo la ritirata dell'esercito americano, l'Afghanistan sta rapidamente tornando sotto il controllo dei Talebani. Siamo stati a Kunduz, città nel nord del Paese che resiste, appesa a un filo

Dentro l’assedio di Kunduz

Foto di Jason Motlagh

Nel negozio di un meccanico trasformato in avamposto militare nella zona est della città assediata di Kunduz, l’ufficiale dell’esercito afgano Shafiqullah Shafiq mi indica un cecchino talebano che domina l’intero quartiere appostato in un palazzo a tre piani a non più di 70 metri da noi. Uno degli uomini di Shafiq corre fuori e spara una raffica verso il bersaglio prima di nascondersi dietro un muro rinforzato di sacchi di sabbia e copertoni e tutto bucherellato dai proiettili. Due giorni prima, un altro soldato si è preso un proiettille in testa per essere rimasto un po’ troppo prorpio in quel punto. È uno dei cinque uomini che l’unità di Shafiq ha perso nell’ultimo mese.

Da più di quattro settimane le forze del governo e i Talebani si danno battaglia in questa città di importanza strategica, una capitale provinciale vicina al confine con il Tagikistan. Dopo aver preso il controllo di tutti i distretti circostanti e dei posti di frontiera, dopo aver tagliato ogni via di accesso alla città, i Talebani la stanno strangolando lentamente, cercando i punti deboli nelle linee di difesa del governo. 

La notte offre ai guerriglieri la libertà quasi totale di muoversi tra le strade e i vicoli deserti. Attacchi con armi da fuoco e granate possono arrivare in qualsiasi momento, da praticamente tutte le direzioni, dal tramonto all’alba, e i circa 20 uomini di Shafiq sono insonni e spaventati. “Non perdono mai un’occasione di attaccarci, e si stanno avvicinando sempre di più”, racconta, affiancato da diversi uomini in uniformi raffazzonate. Alcuni indossano magliette grigie dell’esercito americano, i resti di una campagna militare durata 20 anni. 

Dall’inizio di maggio, quando le forze statunitensi e della NATO hanno cominciato a ritirarsi dopo 20 anni di guerra, i Talebani hanno lanciato un’offensiva su larga scala in Afghanistan. I distretti sono caduti uno dopo l’altro, in rapida successione, tra vittorie in battaglia, accordi con i capi locali, ritirate strategiche e rese totali delle forze governative. Secondo una stima, oggi i miliziani controllano più di metà del Paese. Secondo Long War Journal, minacciano anche metà delle capitali di provincia, e controllano o minacciano di controllare completamente 18 province su 34. 

Kunduz, una città di 370mila abitanti, è caduta in mano ai Talebani due volte, nel 2015 e nel 2016. Ma in entrambi i casi è stata riconquistata cone l’aiuto delle forze speciali dell’aviazione statunitense. Perderla di nuovo distruggerebbe il morale delle forze del governo e potrebbe scatenare un effetto domino in un momento in cui altre capitali di provincia si trovano sotto assedio. Funzionari del governo afgano affermano che le forze di sicurezza di altri distretti si sono ritirate, cedendoli ai Talebani, proprio allo scopo di difendere meglio Kunduz e che i distretti che sono caduti senza combattimenti fanno parte di una strategia che mira a proteggere i centri urbani più importanti. Perdere Kunduz vorrebbe dire che questa strategia non ha funzionato.

L’offensiva dei Talebani fa parte di una strategia che il gruppo armato ha sviluppato nel corso di diversi anni. Il nord del Paese è da sempre la roccaforte di signori della guerra al comando di grandi milizie di tagiki, uzbeki e hazara, con una storia di strenua resistenza ai Talebani, la cui base di supporto tradizionale si trova nelle zone pashtun del sud e nell’est del Paese. Ma secondo gli esperti, i miliziani hanno cominciato a reclutare uomini dalle minoranze etniche, convincendo leader e truppe che hanno motivi di raconre nei confronti del governo afgano a unirsi a loro. Questo cambiamento di strategia ha provocato una grande espansione dei Talebani nella regione, qualcosa che non si vedeva dai tempi dell’invasione americana dell’Afghanistan nel 2001. L’Afghanistan Analysts Network, un think tank con base a Kabul, aafferma che la nuova strategia dei Talebani nel nord del Paese, “sembra una specie di attaccco preventivo per impedire all’opposizione del nord di organizzarsi”.

Anche se le forze afgane per ora stanno resistendo ai Talebani a Kunduz, l’atmosfera di paura è intensificata dalla loro capacità di colpire in profondità nel territorio controllato dal governo. Lo scorso 9 luglio, un’autocisterna trasformata in un’autobomba è stata fatta saltare a meno di 200 metri dal compound del governatore di Kunduz, provocando una densa colonna di fumo nero nel cielo della città. Due giorni dopo, è circolato un video in cui si vede un drone dei Talebani che colpisce un elicottero dell’esercito afgano all’interno della principale base governativa di Kunduz. Durante il giorno in città rimangono aperti alcuni negozi, ma i combattimenti strada per strada e i frequenti blackout stanno spingendo sempre più negozianti a chiudere in previsione di quello che potrebbe succere tra poco. “Appena riesco a mettere insieme abbastanza soldi me ne vado”, dice Amir Mohammad, 47 anni, venditore di sandwich che prima faceva le pulizie nella base delle truppe tedesche a Kunduz. “Me ne andrei dall’Afghanistan se potessi”, spiega. La sua domanda di visto è stata rifiutata.

Nel suo quartier generale fortificato, il nuovo governatore provinciale Najibullah Omarkhil ha cercato di tagliare corto riguardo alla possibilità che la città venga conquistata dai Talebani. “Le assicuro che le nostre truppe sono abbastanza forti per difendere la città”, ha detto a Rolling Stone mentre fuori si sentivano gli spari. Ha chiamato l’ultima conquista talebana di Kunduz “un disastro” che è stato “un colpo economico pesante” per la città, provocando la fuga dei suoi migliori imprenditori, e si è lamentato del ritiro delle truppe americane, che potrebbe trasformare di nuovo l’Afghanistan in un campo di battaglia con i terroristi. “I Paesi minacciati dal terorrismo dovrebbero essere aiutati”, afferma. “I terroristi in Afghanistan non sono una minaccia solo per l’Afghanistan – sono una minaccia per tutto il mondo”. Durante un meeting con alcuni giornalisti locali, li ha pregati di non scrivere articoli troppo apertamente negativi, che finirebbero per fare inconsapevolmente propaganda per i Talebani, e ha promesso che il governo li avrebbe protetti. I giornalisti hanno ascoltato impassibili, ben poco convinti. I Talebani stanno assassinando giornalisti in tutto il Paese per silenziare il dissenso e ora che la loro morsa si è chiusa su Kunduz buona parte dei giornalisti locali se n’è andato. 

“Abbiamo molta paura del futuro”, afferma un corrispondente dall’Afghanistan che lavora per un giornale americano. Ricorda che quando i Talebani hanno conquistato la città la prima volta, nel 2015, è stato costretto a nascondersi in una capanna di fango senza acqua corrente e mangiando solo pane raffermo per una settimana. Nel settembre 2019 suo fratello minore, un poliziotto, è stato ucciso da un attentatore suicida talebano. Ora che le forze del governo si sono ritirate dai distretti circostanti e riorganizzate a Kunduz, ha deciso di rimanere in città. Ma vorrebbe trasferirsi con la famiglia Kabul – cosa non facile, visto che non ci sono più voli e che viaggiare via terra vuol dire sfidare la sorte attraverso il territorio dei Talebani. “Ci sono così tanti checkpoint”, spiega.

Ai residenti della periferia di Kunduz, i combattimenti costanti hanno reso la vita impossibile. Secondo le stime dell’ONU, nel corso dell’ultimo mese il conflitto ha provocato 35mila profughi che hanno lasciato la città, parte di quella che viene definita “una catastrofe umanitaria”. Decine e centinaai di famiglie si accampano nei cortili delle scuole, molte altre vivono per strada vicino all’aeroporto nel caldo soffocante in attesa di aiuti umanitari che sono praticamente inesistenti. “Diversi anni fa, i combattimenti ci hanno costretti a lasciare la nostra casa e venire in città. Oggi siamo profughi di nuovo, da una zona della città all’altra”, racconta Mirza Mohammad, padre di cinque figli, mentre i suoi figlia montano una tenda con pali di legno e sacchi di iuta. La scorsa notte la famiglia ha dovuto llasciare la sua casa nel nord della città dopo che un razzo ha colpito l’abitazione dei vicini: i combattimenti erano così intensi che non c’è stato modo di recuperare i loro corpi. E anche qui, racconta, “di notte i proiettili ci fischiano intorno”.

“Quando si combatte non sappiamo più dove scappare, siamo persi”, esclama Mohammad Shafi, un abitante dello stesso quartiere, anche lui profugo, anche lui che oggi vive per strada con la sua famiglia. “Ho 50 anni e non ho mai visto pace e sicurezza in tutta la mia vita. Abbiamo perso parenti, siamo rimasti feriti, abbiamo visto la nostra casa distrutta”, continua. “Se il governo può fare qualcosa per noi, deve farlo adesso. Altrimenti, che si ammazzino tutti tra loro. Ci hanno causato fin troppa miseria”.

Una sera di pocco tempo fa, l’agente di polizia Din Mohammad stava guidando il suo Humvee nella zona nord della città, vicino al distretto di Imam Sahib, controllato dai Talebani, teatro di alcuni tra i combattimenti più intensi. “Hanno cercato di sfondare così tante volte”, racconta, “ma li abbiamo sempre respinti”. Nell’ultima offensiva, i Talebani erano riusciti a entrare in 4 dei 9 distretti della città, ma le forze afgane sono risucite a tenere e a impedirgli di raggiungere il centro della città. Isolato dopo isolato, i negozi sono chiusi e le strade deserti finché non raggiungiamo un avamposto, un benzinaio circondato da barricate di mattoni. Ufficiali preoccupati fanno segno ccon le mani a un motociclista che sta attraversando la terra di nessuno verso la zona dei Talebani. Non c’è modo di distinguere i civili dai miliziani nemici. Al secondo piano di un edificio vicino, un poliziotto spara da una feritoia verso dei Talebani appostati in una moschea dall’altro lato della strada.

Il morale si risolleva quando arriva una squadra delle forze speciali afgane. Il loro leader, il comandante Bilal, che non vuole rivelare il suo vero nome, dice che sono arrivati da Kabul tre settimane fa per aiutare a respingere l’offensiva dei Talebani, in una delle tante unità incaricate di pattugliare la città di notte per impedire ai miliziani di prenderla. “Sono dei codardi, non ci combattono faccia a faccia”, dice ridendo. Le forze speciali afgane sono meglio addestrate e meglio equipaggiate del resto dell’esercito afgano, ma sono poche. A loro sono riservate le missioni più difficili e pericolose, un compito che sta cominciando a essere pesante. La settimana scorsa, è circolato un video che mostrava l’esecuzione sommaria di 22 uomini delle forze speciali afgane da parte dei Talebani nella provincia di Faryab. A quanto pare la loro unità era stata costretta ad arrendersi dopo aver finito le munizioni ed essere rimasta senza supporto aereo. 

Bilal non si ferma da sei mesi e si aspetta di non fermarsi ancora per un bel po’. “Siamo in uno stato di emergenza”, dice. “Anche se siamo stanchi e non ne possiamo più, non abbiamo altra scelta che continuare a combattere”. Alla domanda se non avrebbe preferito che le truppe americane rimanessero nel Paese, risponde da veterano. “È una questione politica, non sta a noi decidere”. Ma dice anche che all’esercito afgano servirebbero più soldati da schierare nelle aree che le sue truppe ripuliscono dai guerriglieri, per impedire che questi se le riprendano subito dopo. Un giovane ufficiale di nome Mohammad Ghani dice che gli Stati Uniti potrebbero ancora fare la differenza con l’aviazione, lanciando missioni da basi in Paesi confinanti. Anche se le nuove regole di ingaggio hanno limitato il supporto aereo offerto dagli Stati Uniti all’esercito afgano nelle ultime settimane, le forze americane stanno comunque portando avanti dei bombardamenti mirati contro i Talebani. “Dovrebbero fare qualcosa per impedire il collasso completo del governo”, afferma. “Noi stiamo combattendo duramente”.

Risuona il richiamo della preghiera sera e, puntuali, anche gli spari e i colpi di mortaio si intensificano. Dalla radio arrivano gli ordini per la notte. Bilal e i suoi uomini controllano le loro armi e si riuniscono sul ciglio della strada. Uno dopo l’altro, corrono attraverso la linea di fuoco e svaniscono in un vicolo. 

Questo articolo è apparso originariamente su Rolling Stone US