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Da grandi poteri derivano grandi responsabilità, ma non per Novak Djokovic

Pur di non vaccinarsi, il tennista serbo è disposto a rinunciare a Wimbledon e Roland Garros. Non è la prima causa sbagliata che appoggia, dalle ambiguità sull'indipendenza del Kosovo al negazionismo del massacro di Srebrenica

Foto: Srdjan Stevanovic/Getty Images

Novak Djokovic non ha nessuna intenzione di porre un freno alla sua personale crociata contro i vaccini anti-covid. La conferma è arrivata ieri, quando il tennista serbo, intervistato dalla BBC, ha dichiarato di essere disposto a non prendere parte a due dei quattro tornei più importanti dell’anno – Wimbledon e Roland Garros – pur di mantenere fede alle proprie posizioni e non concedere alcuno spiraglio a una campagna vaccinale che, soltanto nei primi 9 mesi del 2021, ha salvato 470mila vita in Europa, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Delle credenze un pelino controverse di Djokovic abbiamo scritto di recente su Rolling Stone (friendly reminder: il tennista più forte al mondo ama intrattenere lunghi e appassionati colloqui con delle ciotole di riso ed è convinto che l’acqua si possa depurare grazie «alla preghiera e al potere della gratitudine»; il che ci fa supporre che, vent’anni fa, sarebbe stato un affezionato acquirente della crema “sciogli-pancia” di Wanna Marchi), ma forse è arrivato il momento di affrontare la questione da un punto di vista differente: è giunta l’ora di parlare di responsabilità. E non possiamo in alcun modo rimandare, perché quando un personaggio così in vista decide di schierarsi in maniera talmente netta su un tema pregnante per il dibattito contemporaneo, be’, non è più possibile separare l’atleta dall’uomo: il personale diventa politico, volente o nolente.

Per un determinato sottobosco – quello più disinformato e malleabile come la creta – Nole ha ormai assunto una veste quasi messianica: questo schieramento composito lo considera una sorta di icona, l’agnello sacrificale che ha rigettato le proprie paure, il Davide che in uno slancio di idealismo ha scelto di combattere il Golia delle Big Pharma, ponendosi alla testa di una lotta che nessuno aveva avuto il coraggio di attestarsi.

Il problema è che le cose non stanno esattamente così: Djokovic non è quel capo-popolo dai solidi ideali in stile Toussaint Louverture – il giacobino nero che liberò Haiti dalla schiavitù e dal dominio francese – che la sua claque ritiene che sia; quando parliamo di Nole, parliamo di una Corporation in carne e ossa, che può permettersi agi a cui la stragrande maggioranza delle persone che lo idolatrano è costretta a rinunciare: una lobby influente dal punto di vista politico e mediatico, ben consapevole dell’ascendente che è in grado di esercitare sull’opinione pubblica.

Il suo patrimonio personale (in crescita) è stimato in 275 milioni di dollari: ha investito in qualsiasi ambito, dalla ristorazione all’intrattenimento, fino al settore immobiliare: è, a mani basse, l’Uncle Scrooge del tennis. Anche la pandemia ha rappresentato un’occasione ghiotta per provare a ingigantire il suo (già parecchio in salute, come abbiamo visto) portafogli: a gennaio, il Guardian ha scoperto che Djokovic e sua moglie Jelena Ristic hanno acquistato l’80% di QuantBioRes, un’azienda danese di biotecnologie impegnata nello sviluppo di una cura alternativa per “de-attivare” il Covid-19 (ora, le malelingue più navigate potrebbero essere indotte a pensare che, dietro la scelta anti-vaccinale di Djokovic, possano celarsi interessi economici che porterebbero benefici alla sua nuova avventura aziendale; ma si tratta, appunto, di malelingue, ne siamo sicuri).

Una volta chiarito che parliamo di un super-ricco che si sposta con un jet privato e non del simpatico sindacalista di quartiere a cui potreste affezionarvi durante la visione di un film di Ken Loach, parliamo appunto di responsabilità: quando un’icona così ingombrante decide di schierarsi su argomenti delicatissimi come la campagna vaccinale, la scelta non è mai casuale, a maggior ragione se parliamo di Nole.

Djokovic è perfettamente a suo agio nel ruolo dell’opinion leader in grado di orientare le decisioni di decine di migliaia di persone sparse in giro per il mondo, a partire dal suo Paese d’origine, dove rappresenta qualcosa di più di una semplice icona sportiva. Non ha ha mai perso occasione per trasformarsi nel megafono delle battaglie in cui crede ciecamente, come ad esempio la causa della grande nazione serba.

Sulle simpatie politiche un po’ destrorse del numero 1 della classifica ATP non dovrebbero esserci troppi dubbi, ma forse è il caso di rinfrescare la memoria: parliamo di un nazionalista di estrema destra, anche piuttosto radicale. Non potremmo definirlo diversamente, perché i precedenti in tal senso sono tanti e stratificati nel tempo: a settembre ha iniziato a circolare una foto che ha fatto molto discutere, in cui il tennista era seduto al tavolo di un ristorante in compagnia di Milan Jolovic – non uno qualsiasi, ma il comandante del gruppo paramilitare Lupi della Drina, alleato dell’esercito serbo in occasione del genocidio di Srebrenica del 1995. Per chi conosce almeno un minimo la vicenda politica di Djokovic, nulla di strano: nel 2008, quando il Kosovo dichiarò l’indipendenza dalla Serbia, il tennista si recò a Mitrovica per incontrare la popolazione serba locale ed esprimere il proprio supporto alla loro causa; ma, se è vero che due indizi non fanno prova, ecco il terzo: nel 2011 confermò al Der Spiegel di ritenere il Kosovo parte del territorio della Serbia.

Quella stessa Serbia governata dal 2014 dal Partito Progressista di Aleksandar Vučić – uno schieramento nazional-conservatore e populista – e in cui il tennista è diventato un’icona patriottica; uno tra i paesi con i tassi di vaccinazione più bassi d’Europa e in cui, forse non casualmente, la campagna ha faticato moltissimo a ingranare – del resto, quando il simbolo nazionale più prestigioso veicola un certo tipo di messaggio, finisci per crederci. 

In definitiva, Djokovic è un personaggio dal potenziale letterario infinito: se, nei prossimi anni, uno scrittore dovesse avere il privilegio di venire ingaggiato per redigere l’autobiografia del campione serbo, tirerà fuori per forza di cose un best-seller, proprio come J. R. Moehringer fece con Andre Agassi nel 2011. Già lo immaginiamo: la storia di un campione cresciuto in un Paese in costante crisi d’identità, dilaniato dalle bombe e dal ricordo della guerra civile, che riesce nell’impresa di conquistare il tetto del mondo partendo dal niente. Ma, di pagina in pagina, conosceremmo diversi Djokovic, dal milionario che sceglie di trasformarsi nel braccio armato dello scetticismo vaccinale al nazionalista convinto, amico e commensale dei negazionisti del genocidio di Srebrenica. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità, ma non per Nole: lui i suoi ha scelto di usarli soltanto per solleticare il suo ego e le proprie convinzioni distorte.

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