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Cosa sta succedendo tra Facebook e l’Australia, e perché ci riguarda tutti

Il Parlamento australiano sta discutendo una legge per obbligare Google e Facebook a pagare per i contenuti giornalistici condivisi sulle loro piattaforme. Ieri Facebook ha risposto bloccando tutte le notizie in Australia

Mark Zuckerberg testimonia davanti al Congresso. Foto Saul Loeb/AFP via Getty Images

Da ieri, i cittadini australiani non possono più consumare contenuti giornalistici su Facebook o accedere alle pagine di siti di news (e anche di organizzazioni governative, come l’ente meteorologico statale) e chi vive nel resto del mondo non può fare lo stesso con i contenuti prodotti dai media australiani. Il social network ha infatti bloccato tutto, per reagire a una proposta di legge che il governo australiano sta discutendo e il cui scopo è livellare lo squilibrio di potere contrattuale tra i media e le grandi piattaforme digitali.

Da tre anni, la Commissione per la competizione e i consumatori australiana sta lavorando a una legge che venga in aiuto del mondo dei media, in crisi profonda e sempre più dipendente dal traffico proveniente dai social network. La risposta è stata cercare di costringere Facebook e Google a stringere accordi direttamente con gli editori, sostanzialmente pagando le testate per il diritto di proporre i loro contenuti sulle proprie piattaforme; in caso di mancato accordo, la legge prevede che a stabilire il prezzo che le piattaforme devono pagare per i contenuti sia un arbitrato favorevole alle testate. 

Ovviamente, la cosa non piace affatto a Facebook e Google, che da mesi stanno tentando di minacciare e intimidire in modo sempre meno velato il governo australiano. Lo scorso agosto, Google ha appuntato in cima alla propria homepage un annuncio che avvertiva gli australiani del fatto che la nuova legge avrebbe danneggiato le loro possibilità di ricerca e causato “conseguenze” per gli utenti di YouTube. All’inizio di quest’anno, sempre Google aveva minacciato di smettere di rendere disponibili le ricerche su Google in Australia. Nel caso di Facebook, dove secondo alcune stime solo il 4% dei contenuti è di tipo giornalistico, la posta in gioco è più bassa – ma ciò non ha impedito all’azienda di reagire con forza alle pressioni.

Se i media australiani sostengono che le piattaforme abbiano beneficiato per anni dei contenuti giornalistici condivisi dagli utenti mentre costruivano un duopolio delle pubblicità digitali che lascia agli editori soltanto le briciole, è anche vero che solo nel 2020 Facebook ha portato alle testate australiane almeno 5 miliardi di click, per un valore stimato di 407 milioni di dollari australiani. “La proposta di legge fondamentalmente fraintende la relazione tra la nostra piattaforma e gli editori che la utilizzano per condividere contenuti”, ha detto William Easton, Managing director di Facebook per Australia e Nuova Zelanda. Adesso, a meno che l’azienda non trovi un accordo con il governo, quei soldi sono destinati ad azzerarsi. 

Il blocco della condivisione di notizie in Australia e il blocco di tutte le fonti australiane che potrebbero fornirle è stato definito “uno storico atto di censura” ed è stato criticato per due ragioni principali. La prima è che Facebook ha affidato l’identificazione delle fonti da bloccare ai propri sistemi di machine learning, che però hanno commesso diversi errori bloccando anche siti di ministeri, ONG, istituzioni e persino la stessa pagina Facebook di Facebook. La seconda è che la rimozione delle fonti giornalistiche dalla piattaforma spiana ancora di più la strada alla diffusione della disinformazione – una cosa che, tra l’altro, Facebook ha sempre detto di voler combattere. 

Secondo il giornalista statunitense Casey Newton, che si occupa da anni del rapporto tra piattaforme e democrazia, non è il caso di piangere il morto. “Non conosco un solo giornalista che si senta a suo agio con il fatto che i social network siano una fonte primaria di notizie, in particolare dopo anni di articoli quotidiani sulla disinformazione e le teorie del complotto che così spesso vi prosperano sopra”, ha scritto nella sua newsletter Platformer. “E quindi è un po’ strano vedere così tante persone insistere sul fatto che Facebook sia obbligato a condividere i contenuti degli editori, a qualunque termine questi editori impongano”.

Per quanto riguarda Google, invece, ha scelto una strada diversa – quella di piegarsi, almeno in parte, al governo australiano. Nelle ultime settimane, infatti, la società ha cominciato a stringere accordi con vari gruppi editoriali australiani. Per ora l’accordo non sembra riguardare ciò che più sta a cuore all’azienda – i link e i frammenti di articoli che appaiono tra i risultati di ricerca generali – ma solo YouTube e Google News Showcase, una scheda all’interno di Google News che contiene contenuti concessi in licenza da partner ufficiali. 

Tra i gruppi editoriali con cui Google si è accordato c’è anche News Corp di Rupert Murdoch. L’accordo tra le due società ha suscitato particolare clamore, sia perché tra loro non corre buon sangue sia perché ha sottolineato una lacuna evidente all’interno della legge: il requisito di idoneità per poter partecipare al programma e stringere accordi con le piattaforme. Per ora infatti la legge esclude i piccoli editori, facendo sì che a beneficiarne siano solo i gruppi editoriali più grandi. Si aiuta ad avere più potere contrattuale chi ha già più potere contrattuale, insomma.

Secondo Casey Newton, il fatto che la legge sia fatta in questo modo pone diversi problemi. “Porterà gli editori ad assumere un numero significativo di nuovi giornalisti? Nuove pubblicazioni verranno fondate e prospereranno? O questi sussidi si limiteranno a compensare i profitti per le testate giornalistiche più ricche del paese, a favorire un ulteriore consolidamento del settore e a contribuire molto poco al giornalismo vero e proprio?”

Qualche sospetto ce l’ha già: “La capitolazione di Google significa che ora è probabile che il capitalismo clientelare australiano venga esportato in tutto il mondo. I media tradizionali diventeranno più ricchi e anche più dipendenti dai giganti della tecnologia che criticano quotidianamente perché hanno troppo potere su di loro. Nel frattempo, l’industria dei media continuerà a consolidarsi e sarà più difficile ottenere o mantenere un lavoro nel giornalismo”.

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