Nella notte di mercoledì 7 luglio, un commando di uomini armati ha fatto irruzione nella residenza di Javenel Moïse, presidente della nazione caraibica di Haiti a Pétion-Ville, una città ad ovest della capitale Port-au-Prince. Secondo la ricostruzione fornita dal primo ministro Claude Joseph, il commando – che sarebbe stato composto da uomini armati non identificati che parlavano in spagnolo e in inglese – sarebbe arrivato verso l’una di notte, avrebbe fatto irruzione senza incontrare resistenza fingendo un’operazione della DEA (l’agenzia antidroga degli Stati Uniti) e avrebbe poi assassinato Moïse e ferito gravemente la moglie, che è stata trasferita in un ospedale di Miami.
Subito dopo l’omicidio, Joseph ha convocato un Consiglio dei ministri straordinario per decretare lo stato d’assedio su tutto il territorio nazionale – conferendo all’esercito il ruolo di massimo garante della sicurezza per 15 giorni, creando tribunali militari speciali e aumentando il controllo sui mezzi di comunicazione. Il capo della polizia haitiana Leon Chales ha riferito oggi che quattro dei presunti assassini sono stati uccisi e altri due arrestati. Intanto Haiti è stata isolata dal resto del mondo: l’aeroporto di Port-au-Prince è stato chiuso al traffico, gli aerei in arrivo sono stati dirottati altrove e la Repubblica Dominicana – che insieme ad Haiti occupa l’isola di Hispaniola – ha chiuso il confine.
L’omicidio di Moïse è solo l’ultimo atto di una crisi politica che si protrae da anni ad Haiti, il Paese più povero di tutta l’America Latina e uno dei più poveri del mondo. Le radici dell’instabilità di oggi arrivano almeno dal 2004, anno in cui Haiti avrebbe dovuto festeggiare il 200esimo anniversario della sua indipendenza dalla Francia – conquistata con una rivoluzione sul modello di quella francese portata avanti dagli schiavi neri che popolavano la colonia e il cui leader Toussaint Louverture è diventato poi un simbolo della lotta per l’autodeterminazione dei popoli in tutto il mondo.
L’indipendenza di Haiti, però, non è mai stata effettiva: il dominio coloniale diretto si è trasformato in una dominazione economica indiretta, mentre l’isola diventava un feudo di dittature personali come quella della famiglia Duvalier – Francois, detto “Papa Doc”, e il di lui figlio Jean-Claude, detto “Baby Doc”. Proprio nel 2004 il primo governo democraticamente eletto di Haiti, quello del presbitero Jean-Bertrand Aristide, è stato rovesciato da un colpo di stato organizzato dagli Stati Uniti e appoggiato dall’Unione Europea.
Da allora è iniziato un ciclo di instabilità e violenza che arriva sino ad oggi, alimentato anche dalla corruzione endemica della classe politica haitiana. Uno degli scandali più rumorosi è quello relativo all’appropriazione indebita dei fondi del programma Petrocaribe – un accordo siglato nel 2005 tra il Venezuela e alcuni stati dei Caraibi per consentire loro di acquistare petrolio a prezzi agevolati che nelle intenzioni del presidente venezuelano Hugo Chavez avrebbe dovuto servire ad aiutare i Paesi poveri della regione nel loro sviluppo. I soldi sarebbero dovuti servire per sviluppare infrastrutture, istruzione, sanità e programmi sociali: invece sono finiti nelle tasche del governo e di imprenditori privati haitiani, compreso Moïse.
Lo scandalo Petrocaribe ha ha affossato la credibilità di Moïse e compattato contro di lui la società civile, che ha trovato nella protesta contro il presidente un collante ideologico perfetto dando il via a un’ondata di manifestazioni. Lo scorso febbraio la mobilitazione contro Moïse ha vissuto il suo culmine: migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere le sue dimissioni in occasione della scadenza del suo mandato. Ma Moïse non ha lasciato il potere, ha posticipato le elezioni al 2022 e ha cercato di dipingere le proteste come un golpe nei suoi confronti.
Alle proteste popolari si è poi aggiunta la guerra tra bande che coinvolge tutto il Paese, con tre distretti che ormai sfuggono del tutto al controllo dell governo centrale. La scorsa settimana Jimmy “Barbecue” Cherizier, un ex poliziotto diventato uno dei più noti capibanda di Haiti al comando della gang G9, ha detto di voler lanciare una rivoluzione contro le élite politiche haitiane trasformando la sua banda in un fronte di liberazione nazionale. Haiti, quindi, già povera e instabile, rischia un’ulteriore escalation di violenza.
La brutalità delle gang è soltanto uno dei sintomi del collasso del Paese, funestato da una contaminazione letale di calamità naturali e problemi sociali, economici, sanitari. Oltre a essere un Paese povero e sottosviluppato, ad Haiti l’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, il 47% della popolazione adulta è analfabeta e la grande maggioranza delle abitazioni sono costruite con materiali di fortuna e prive di servizi igienici. Sono i lasciti del colonialismo, della mala gestione della cosa pubblica ma anche delle calamità naturali che si sono abbattute sul Paese nel corso degli anni: il terremoto del 2010, il terzo più catastrofico nella Storia, e l’epidemia di colera che ne è seguita hanno fatto oltre 200mila morti. E anche la gestione della pandemia è stata fallimentare: il governo Moïse ha presentato in ritardo i documenti richiesti per aderire al programma che velocizza l’invio di vaccini ai Paesi poveri. Lo scorso aprile, Haiti non aveva ancora cominciato la campagna di vaccinazioni, con il governo che si giustificava dicendo di voler agire con la massima cautela per fugare ogni dubbio sui possibili effetti collaterali.
La morte di Moïse si inserisce quindi un quadro già drammatico per Haiti. Se durante la sua presidenza i problemi del Paese – la corruzione, l’instabilità, la violenza delle gang – sono solo peggiorati, la sua morte lascia un vuoto politico che non è ancora chiaro come e da chi verrà colmato e in più, eliminando un leader scomodo e screditato, priva il movimento di protesta che da anni riempie le piazze di Haiti del suo bersaglio principale.