Cosa sono i "wet market" cinesi e perché bisogna chiuderli | Rolling Stone Italia
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Cosa sono i “wet market” cinesi e perché bisogna chiuderli

Dopo aver causato la SARS, i "mercati umidi" dove si vendono animali vivi di ogni tipo potrebbero aver causato anche la pandemia di coronavirus. Attivisti animalisti e scienziati di tutto il mondo vogliono metterli al bando

Cosa sono i “wet market” cinesi e perché bisogna chiuderli

Un wet market a Manila. Foto di Veejay Villafranca/Getty Images

L’origine della pandemia di COVID-19 non è ancora certa, ma gli indizi sono forti e convergono tutti sul wet market cinese di Wuhan. E in particolare sui pipistrelli e sui pangolini venduti in quel mercato. Il nome “wet market”, “mercato umido”, deriva dal liquame che bagna costantemente i pavimenti di questi luoghi, formato da sangue, viscere ed escrementi che colano dalle bancarelle e si mescolano al ghiaccio sciolto e all’acqua spruzzata per lavare via i resti degli animali macellati. 

La particolarità di questi mercati, molto diffusi nel Sudest asiatico, è quella di vendere animali vivi – spesso selvatici – macellati o mutilati al momento per consumarne la carne o utilizzare parti del loro corpo per i preparati della medicina tradizionale, come accade appunto per le scaglie di pangolino. 

Succede così che in una sola bancarella si trovino pavoni vivi, ratti, volpi, coccodrilli, cuccioli di lupo, tartarughe, serpenti e maiali selvatici, a stretto contatto tra loro e spesso con ferite aperte. Terreno di coltura perfetto per malattie di vario genere e anche, visto il contatto stretto con l’uomo, occasione ghiotta perché si verifichi il famoso spillover, cioè il “salto di specie” del virus dall’animale all’uomo. Senza contare che, come spiega Vincent Nijman, ricercatore della Oxford Brookes University, spesso manca del tutto l’igiene di base, con lo stesso coltello e lo stesso piano di lavoro utilizzati per ogni pezzo di carne, e nessuno che indossa guanti o si lava le mani. 

Quindi non solo “un vero inferno per gli animali, che vivono in condizioni allucinanti le loro ultime ore di vita in attesa di essere squartati e macellati, ammassati uno sull’altro nella sporcizia più totale”, come denunciano gli attivisti di Animal Equality, ma anche una bomba biologica sempre sul punto di essere innescata.

“Hai un uccello che fa la cacca su una tartaruga che fa la cacca su uno zibetto”, spiega Christian Walzer, direttore esecutivo della salute presso la Wildlife Conservation Society: “Per far emergere nuovi virus, non potresti fare di meglio anche se ci provassi”. 

Già nel 2003, con la SARS – il cui serbatoio virale era stato lo zibetto – i mercati umidi avevano subito una chiusura temporanea ma a emergenza finita la questione era stata pian piano accantonata. A inizio di quest’anno, una volta capita l’entità dell’emergenza coronavirus, la Cina aveva finalmente deciso di chiudere i mercati umidi e di vietare la vendita di animali selvatici vivi a scopo alimentare, ma anche in questo caso il provvedimento ha avuto breve durata.

“L’epidemia da coronavirus non si sarebbe mai diffusa se 17 anni fa, dopo la SARS, i cinesi avessero chiuso definitivamente i mercati di animali selvatici vivi”, ha commentato Jared Diamond. Biologo, antropologo, geografo, linguista e ornitologo, autore dei best seller Armi acciaio e malattie e Collasso: come le società decidono di morire o vivere, lo studioso statunitense sa quello che dice in fatto di epidemie e di rapporto uomo-natura.

Un’inchiesta pubblicata nei giorni scorsi dal Daily Mail, poi, non fa ben sperare nemmeno per il futuro. Il titolo è inequivocabile: “Impareremo mai? I mercati cinesi continuano a vendere pipistrelli e macellare conigli su pavimenti intrisi di sangue mentre Pechino celebra la ‘vittoria’ sul coronavirus”. Nell’articolo il corrispondente George Knowles raccoglie testimonianze dai mercati di Guilin e Dongguan: “Tutti qui credono che l’epidemia sia finita e non ci sia più nulla di cui preoccuparsi”, spiega, mentre racconta che sempre più wet market stanno riaprendo, anche nella capitale Pechino, dove ha già potuto osservare “cani e gatti terrorizzati, stipati in gabbie arrugginite. Pipistrelli e scorpioni offerti per i preparati della medicina tradizionale. Conigli e anatre macellati e scuoiati fianco a fianco su un pavimento di pietra coperto di sangue, sudiciume e resti di animali”. Rispetto a prima dell’epidemia, secondo Knowles, la differenza è principalmente una: “Le forze dell’ordine cercano di impedire a chiunque di scattare foto”.

D’altra parte, anche in piena epidemia, cure tradizionali (e illegali) come il corno di rinoceronte erano ampiamente pubblicizzate come rimedi efficaci contro lo stesso coronavirus, come testimonia un documento pubblicato il mese scorso dalla National Health Commission cinese.

Se in Cina alcuni wet market hanno ripreso l’attività, in altri paesi non si sono mai fermati. È di questi giorni la denuncia della PETA, che all’inizio di aprile ha girato di nascosto delle immagini che documentano la situazione in alcuni wet market asiatici: “Un serpente mutilato era raggomitolato su un tavolo, il suo sangue macchiava le piastrelle. Le galline con ferite aperte erano legate ad altri volatili in attesa di macellazione”, si legge sul sito della PETA in riferimento al mercato di Tomohon, in Indonesia. Al mercato Khlong Toei di Bangkok la situazione è la stessa: borse zeppe di rane vive; anatre, galli e galline stretti in gabbie anguste e sporche, a fianco a volatili già macellati. “In questi mercati”, spiega ancora l’organizzazione animalista: “le feci e altri fluidi corporei possono facilmente finire sulle scarpe di commercianti e clienti ed essere trasportati in ristoranti e case”.

Vista la situazione, lo scorso 27 aprile Animal Equality ha lanciato il più grande tweetstorm al mondo sul tema, con più di 200.000 tweet con l’hashtag #letsbanwetmarkets per chiedere all’ONU di prendere una volta per tutte una decisione definitiva e vietare i mercati di animali vivi. La campagna è diventata trending topic in diversi Paesi, tra cui Italia, Messico e Stati Uniti.

I wet market sono l’esempio più pericoloso ed eclatante, ma è l’intero commercio di animali selvatici – anche in via d’estinzione – a essere tremendamente dannoso. Nessuno conosce la portata complessiva di questo commercio, ma i numeri sono nell’ordine dei diversi milioni di animali, per centinaia di specie trafficate ogni giorno. Uno studio pubblicato lo scorso ottobre sulla rivista Science ne ha stimate circa 5.600, quasi un quinto degli animali vertebrati conosciuti al mondo.

Il discorso andrebbe ampliato ulteriormente prendendo in considerazione il nostro stesso rapporto con la natura. Gli spillover infatti si verificano con più facilità là dove non si rispettano gli ecosistemi. La perdita di biodiversità, combinata con alti tassi di deforestazione, porta le persone e il bestiame ad avere contatti “straordinari” con la fauna selvatica e con i loro agenti patogeni. Le periferie degradate e senza spazi verdi di tante metropoli tropicali, per esempio, sono la culla perfetta per la trasmissione di zoonosi, cioè le malattie che si trasmettono dall’animale all’uomo.

Come spiega David Quammen nel suo ormai celebre Spillover: “Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie”. Non è la natura che si ribella in modo karmico al nostro intervento, ma un normale processo di interazione reciproca. 

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