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Cosa faranno gli elettori di Mélenchon al ballottaggio francese?

Al secondo turno delle presidenziali gli analisti concordano nel dire che i voti di sinistra della France Insoumise saranno decisivi. Tra sondaggi e trattative politiche, la partita tra Macron e Le Pen appare apertissima

Foto di Emmanuel Dunand/AFP via Getty Images

Quattrocentomila voti. Un punto e un decimale percento. Questo è quanto è mancato al candidato della France Insoumise Jean-Luc Mélenchon per raggiungere il secondo turno alle elezioni presidenziali francesi. Un risultato solo in parte in linea con i sondaggi – che lo davano alto ma non altissimo – e che hanno spinto un giornale come Le Monde a scrivere che la sua sconfitta «ha assunto le sembianze di una vittoria».

Ex socialista, già candidato alla presidenza nel 2012 con il Front de Gauche (esperienza che gli valse un 11.1% e un quarto posto) e nel 2017 con la France Insoumise (19.5% e di nuovo quarto), al suo terzo tentativo Mélenchon ha aumentato i suoi consensi sia in termini assoluti (i voti alla fine sono stati 7.7 milioni) sia in termini percentuali (21.95%), in controtendenza rispetto a un’affluenza calata di circa quattro punti rispetto a cinque anni fa.

Non solo, l’analisi scorporata del voto dimostra che il candidato della gauche è primo tra gli elettori più giovani (la fascia 18-34 anni), nelle banlieue e in diverse città importanti come Marsiglia e Nantes. Negli ultimi anni, oltre ad aver mantenuto un profilo molto critico sulla gestione governativa della pandemia, non ha sottovalutato le proteste dei gilet jaunes e ha a più riprese spalleggiato la protesta, arrivando anche a proporre un’amnistia per chi ha subito condanne.

Il suo partito, la France Insoumise, si inserisce nel filone del socialismo democratico europeo e nasce sull’onda dei successi spagnoli di Podemos (con cui è alleata a livello europeo nel gruppo Now the people) e della campagna di Bernie Sanders alle primarie del Partito Democratico statunitense. La sua assemblea di fondazione risale al 10 febbraio del 2016; poi, il 5 giugno dello stesso anno, il movimento organizza un raduno in piazza Stalingrado a Parigi, con un’affluenza di circa 10mila persone. A seguire, oltre mille persone partecipano alla stesura del programma del partito intitolato “Un futuro comune” e battezzato ufficialmente a ottobre con un congresso a Lilla.

Il suo programma, lungi dall’essere una rassegna di utopie inarrivabili, affonda le sue radici in alcuni temi classici della sinistra europea: l’abbassamento dell’età pensionabile a 60 anni, la diminuzione dell’orario di lavoro a 32 ore, l’aumento del salario minimo, la nazionalizzazione di settori come le ferrovie, le autostrade e l’elettricità, una riforma degli alloggi popolari e un’idea di sviluppo legata all’ecologia, con investimenti nell’agricoltura e l’inserimento dell’acqua nella costituzione francese come diritto umano fondamentale. Sul piano fiscale, poi, l’idea di Mélanchon è di allargare le maglie della progressività, portando gli scaglioni da 5 a 15 e introducendo una forma di patrimoniale sulle rendite finanziarie.

Ecco, chi ha votato per una forza del genere, cosa farà il 24 aprile quando al ballottaggio per l’Eliseo si troverà a dover scegliere tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen?

Già la sera del primo turno ci sono stati due segnali: il primo è stato quando Macron, nella sua analisi del voto ha ringraziato il candidato della France Insoumise «per l’onestà della sua campagna elettorale» e il secondo quando, davanti ai suoi sostenitori e alle telecamere, Mélenchon ha detto a chiare lettere che nemmeno uno dei voti che ha preso dovrà finire a Le Pen.

La realtà, come sempre accade in politica a qualsiasi latitudine, è ben più complessa: se Macron appare dialogante, infatti, i caporali di En Marche! sembrano esserlo molto meno; e se Mélenchon ha detto che non bisogna votare Le Pen, in effetti, non ha mai detto che si deve votare Macron.

Un’ipotesi molto particolare e che però si sta facendo strada tra gli osservatori è che, in vista delle elezioni legislative francesi del prossimo giugno, Mélenchon possa chiedere una “cohabitation” a Macron, ovvero potrebbe proporre per se stesso o per uno dei suoi la guida del governo. Siamo nel regno delle delle trattative politiche – che possono andar bene o andar male –, ma si tratterebbe sicuramente di un segnale chiaro sia per l’elettorato sia per la piega che prenderebbe un eventuale secondo mandato presidenziale di Macron, più spostato verso sinistra, quantomeno sui temi sociali, rispetto al suo primo quinquennio all’Eliseo.

«A livello costituzionale, se dovesse vincere il ballottaggio, Macron potrebbe nominare un capo del governo anche prima delle elezioni legislative», spiega a Rolling Stone Ettore Bucci, ricercatore per il Global Student Forum, ong che riunisce 202 sindacati studenteschi e borsista di ricerca al Centro universitario della Cei sulla storia del pensiero politico dei cattolici nelle organizzazioni sociali e dei lavoratori. «Potrebbe anche concedere una cohabitation, dunque, ma questo rischierebbe di precludergli un appoggio dei repubblicani, che pur essendo andati male alle presidenziali conservano molto potere in diverse amministrazioni locali. Certo, l’ipotesi che nei prossimi cinque anni Macron decida di dedicarsi più alla politica estera che a quella interna, lasciando dunque più spazio all’assemblea legislativa, sta in piedi, ma la coabitazione va guadagnata e un’eventuale alleanza politica, comunque, non sarebbe una coalizione».

Equilibrismi? Movimenti tattici che in sede di campagna elettorale non contano nulla? Bucci sostiene che in questo senso bisogna fare due tipi di analisi. «Una è quella politica, che è complicata e come abbiamo visto dipende da più fattori. Poi ce n’è un’altra, diciamo quantitativa: secondo molte indagini, il 22% di elettori che ha scelto Mélenchon al primo turno, al ballottaggio, potrebbe fare qualsiasi scelta. Infatti i sostenitori di France Insoumise saranno chiamati a un referendum interno sul da farsi. Comunque andrà a finire, parliamoci chiaro, qualcuno che voterà Le Pen ci sarà di certo».

Il problema, a questo punto, è di numeri: «C’è chi dice che un terzo dei voti di Mélenchon potrebbe finire a Le Pen, ma secondo me si tratta di una stima esagerata – riflette Bucci –, più realisticamente l’elettorato che andrà a destra si assesterà sul 20 percento. Il problema e che a Le Pen questi numeri potrebbero bastare per vincere».

Il punto si vede bene anche sulle tante mappe del voto: Mélenchon è andato molto bene nelle regioni del sud e in quelle del nord, storici bastioni elettorali dell’ultradestra francese almeno dalla fine degli anni ’80. Questo preoccupa Macron, che sa di giocarsi il tutto per tutto al confronto televisivo con Le Pen. In quella sede, il presidente uscente dovrà essere bravo a mostrare una sensibilità sociale che sin qui gli è mancata, mentre la sfidante – che cinque anni fa affondò proprio con il dibattito televisivo – non ha nulla da perdere e la presenza sullo scacchiere di un candidato parecchio più a destra di lei (il giornalista Éric Zemmour) l’ha resa quasi presentabile agli occhi dei francesi, o quantomeno l’ha fatta apparire più centrista e meno estremista di quanto non sia in realtà.

Con il tracollo delle due forze storicamente egemoni della politica francese (Repubblicani e Socialisti, in due, non arrivano al 7% dei consensi) e il venir meno dello storico “fronte repubblicano” che già in passato è stato un argine alle candidature di estrema destra – la prima volta è del 2002, quando Jean Marie Le Pen arrivò al ballottaggio e i socialisti si riversarono in massa a votare il repubblicano Jacques Chirac –, gli occhi sono tutti puntati sul popolo di Mélenchon.

A dieci giorni dal momento della verità, i sondaggi danno Macron in vantaggio su Le Pen con una forchetta che sta tra i dieci e i due punti percentuali. Questo mentre almeno il 40% degli elettori di Mélenchon è indeciso se recarsi alle urne o meno.

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