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Cosa dice di noi la morte di Cloe Bianco

Si può parlare della triste fine della professoressa trangender senza dire che è ‘una storia’, ma un dramma che ci riguarda tutti?

Sabato scorso, in un bosco tra Auronzo e Misurina, in Veneto, è stato trovato un camper completamente carbonizzato: al suo interno giaceva il cadavere di Cloe Bianco, una professoressa transgender di 58 anni.

Bianco insegnava fisica all’istituto Mattei di San Donà di Piave, in provincia di Venezia. Sette anni fa, il 30 novembre del 2015, aveva deciso di presentarsi in classe in abiti femminili e fare coming out, spiegando ai suoi alunni perché, da quel giorno in poi, avrebbe indossato abiti da donna.

Al tempo, la scelta di Cloe scatenò la reazione rabbiosa di alcuni genitori: «Ma davvero la scuola si è ridotta così?», scrisse il padre di un alunno in una lettera aperta rilanciata su Facebook dall’allora Assessore regionale all’Istruzione Elena Donazzan, in quota Fratelli d’Italia. «Forse questo è un fatto “normale” per tanti ma non per noi che viviamo quei valori che ci sono stati donati e che all’educazione dei nostri figli ci teniamo lottando quotidianamente bersagliati ogni giorno da chi quei valori vuole distruggere, teorie gender e quant’altro», concluse. La stessa Donazzan trasformò la questione in un suo cavallo di battaglia: all’indomani del coming out di Bianco, affermò di essere «schifata» dall’atteggiamento della docente, dichiarando che «Se qualcuno vuole travestirsi da donna lo faccia a casa sua».

La mattina seguente, la professoressa venne sospesa per tre giorni dall’insegnamento, a causa del comportamento ritenuto non «responsabile né corretto» e fu relegata alla segreteria, perdendo la possibilità di insegnare. Da allora, Bianco ha iniziato a portare avanti una battaglia per la propria identità di genere e a curare un blog, PERsone TRANSgenere.

Nelle scorse settimane, con alcuni post pubblicati sul suo blog, Bianco aveva anticipato la sua volontà di farla finita. In uno di questi, pubblicato il 10 giugno e intitolato Autochiria di Cloe. Oggi il mio finire e perciò la fine di tutto, scriveva che «Subito dopo la pubblicazione di questo comunicato porrò in essere la mia autochiria, ancor più definibile come la mia libera morte. In quest’ultimo giorno ho festeggiato con un pasto sfizioso e ottimi nettari di Bacco, gustando per l’ultima volta vini e cibi che mi piacciono. Questa semplice festa della fine della mia vita è stata accompagnata dall’ascolto di buona musica nella mia piccola casa con le ruote, dove ora rimarrò. Ciò è il modo più aulico per vivere al meglio la mia vita e concluderla con lo stesso stile. Qui finisce tutto. Addio. Se mai qualcuna o qualcuno leggerà questo scritto». Poche ore dopo, sempre sul blog, Bianco ha pubblicato una copia del suo testamento olografo e di quello biologico.

Nessun incidente, quindi: la “libera morte” di Bianco è stata una scelta premeditata e indotta dall’atteggiamento di indifferenza e totale chiusura che, ancora oggi, troppe persone LGBTQ+ continuano a sperimentare sulla propria pelle, venendo spesso ripudiate dai parenti e ritrovandosi sole, senza punti di riferimento su cui contare. Nel caso di Bianco, poi, la violenza di genere ha finito per contaminarsi con l’abbandono da parte di quelle stesse istituzioni che avrebbero dovuto proteggerla e con il dramma professionale: non potere svolgere il lavoro per cui ha studiato e si è formata al prezzo di grandi sacrifici, venire degradata dall’insegnamento per appicciare marche da bollo in segreteria.

«In Veneto mancano le tutele per le persone transessuali e la vicenda di Cloe, lasciata sola dalle istituzioni e dalla Regione di Luca Zaia, lo dimostra», ha denunciato al quotidiano La Nuova Venezia l’avvocata transgender Alessandra Gracis. «Purtroppo, per quanto riguarda la cura delle persone affette dalla disforia di genere, siamo all’anno zero. Il vero problema è che nel Veneto, nonostante le promesse di Zaia e i suoi obiettivi o tentativi di dar voce a un centro regionale che affronti questa tematica a fianco delle famiglie, non è stato fatto nulla. La legge regionale 22 del 1993 c’è, per tutta l’assistenza necessaria. È rimasta però una lettera morta, dato che la giunta avrebbe dovuto individuare i centri entro 30 giorni. Di giorni ne sono passati oltre 10mila, senza i necessari adempimenti. Ora siamo davanti al suicidio di una persona transessuale».

Insomma, la ‘storia’ di Cloe è soltanto l’ennesima conferma del grado di conservatorismo imperante nel nostro Paese: un atteggiamento di chiusura rende ancora impossibile, per una persona trangender, vivere la propria vita con dignità e in pienezza di diritto, come dovrebbe essere normale in un Paese che vuole definirsi anche soltanto vagamente “progressista”. Il suo dramma deve diventare il nostro dramma, trasformarsi in un monito per tutti noi. Dobbiamo ricordarci di lei ogni volta in cui qualcuno prova a convincerci che i valori del Family Day dovrebbero essere quelli dominanti o quando vengono diffusi messaggi invalidanti basati sul falso presupposto secondo cui le persone sono eterosessuali e, quindi, tutti coloro con identità di genere e orientamenti sessuali non conformi non esistono o, se diventano visibili, sono anormali. Peraltro, non bisogna dimenticare che il suicidio di Cloe ha seguito di appena un giorno il gesto di un 15enne transgender di Catania, Sasha. Serve una rivoluzione culturale dai contenuti profondi: lo dobbiamo a Cloe Bianco, lo dobbiamo a noi stessi come individui e membri della comunità.

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