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Cosa ci insegna il caso dello ‘ius soli’ bolognese

Un ordine del giorno approvato il 21 febbraio ha garantito a 11mila bambini stranieri la cittadinanza onoraria: la speranza è che sia solo l'inizio di un percorso che veda approvato questo diritto anche livello parlamentare

Cosa ci insegna il caso dello ‘ius soli’ bolognese

Foti di Stefano Montesi - Corbis via Getty Images)

Il comune di Bologna è il primo a livello nazionale a decidere di provare a ideare una legislazione ad hoc per i suoi cittadini di seconda generazione. Figli di immigrati, ma nati oppure cresciuti in Italia, i giovani appartenenti a questa categoria non sono in possesso della cittadinanza italiana e sono costretti in un limbo che, fino alla maggiore età, non permette loro di richiederla e di essere riconosciuti a tutti gli effetti come parte della nazione. Ecco perché, lo scorso 21 febbraio, la maggioranza di centrosinistra al comune di Bologna ha presentato un ordine del giorno per inserire lo ius soli – il principio in base al quale l’acquisto della cittadinanza avviene come conseguenza della nascita in un determinato territorio – all’interno dello statuto comunale, che è stato approvato nonostante l’ostruzionismo di Fratelli d’Italia, il voto contrario della Lega e l’astensione di Forza Italia.

La ratio del provvedimento è chiara: la legge sulla cittadinanza approvata nel 1992 oggi è parecchio anacronistica, distante dalle richieste della popolazione e dall’affermazione di una realtà multiculturale come quella italiana. Questo ordine del giorno, quindi, rappresenta più che altro un passo in avanti simbolico: la speranza è che sia solo l’inizio di un percorso che veda approvato davvero questo diritto e che altre città si possano unire a questa piccola “rivoluzione” costruita dal basso. La volontà, infatti, è quella di attivare una rete con altri Comuni, ha spiegato Lepore, per sollecitare il Parlamento ad approvare quanto prima una nuova legge sulla cittadinanza italiana che riconosca pieni diritti ai figli dei migranti nati o cresciuti in Italia e agli stranieri che vivono stabilmente in Italia.

L’unico vincolo inserito nella proposta è quello di richiedere ai giovani con età inferiore ai 17 anni di aver completato almeno un ciclo di studio all’interno dell’area comunale. Si stima che, a Bologna, siano 11.623 i giovani residenti che non possiedono la cittadinanza italiana (a livello nazionale, invece, circa un milione di persone non vedono riconosciuto il proprio diritto di appartenere ai luoghi in cui sono nati e cresciuti). La proposta prevede anche di istituire una Festa per la cittadinanza per il 20 Novembre, giorno in cui si celebrano, a livello internazionale, i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: in quell’occasione il sindaco o un suo delegato consegneranno direttamente ai ragazzi l’atto in una cerimonia che mira a valorizzare di nuovo questo diritto.

Il principio di cittadinanza annovera al suo interno diritti, doveri, identità e partecipazione. Elementi che sicuramente non mancano a ragazzi nati e cresciuti e cavallo di due o più culture. Siid Negash, capogruppo della lista Lepore in Consiglio comunale, ha dichiarato a Repubblica che «non è un argomento di facciata ma un argomento concreto. In questo Paese abbiamo una legge di cittadinanza che ha trent’anni ed è diventata obsoleta».

Per manifestare il suo disaccordo, la Lega ha organizzato un flash mob, mentre Fratelli d’Italia ha istituito una raccolta firme contro l’iniziativa. Parte della critica della destra sembra fondarsi sull’importanza di relegare questa decisione unicamente al Parlamento. Ma se le camere tardano nell’approvazione di una legislazione a favore di persone che contribuiscono attivamente alla vita pubblica, quale altra strada rimane da percorrere?

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