Com’è stato lavorare per Nike il giorno del lancio della campagna con Colin Kaepernick? | Rolling Stone Italia
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Com’è stato lavorare per Nike il giorno del lancio della campagna con Colin Kaepernick?

“Non importa se qualche poliziotto fa fuori dei negri una volta ogni tanto, i ragazzini neri si sparano ogni giorno” e altre telefonate razziste ricevute da uno degli impiegati dei call center Nike

Com’è stato lavorare per Nike il giorno del lancio della campagna con Colin Kaepernick?

Chiunque abbia un account su un qualsiasi social media avrà notato il putiferio scatenato contro Nike e il testimonial della campagna #JustDoIt, Colin Kaepernick. Per un giovane ragazzo afroamericano impiegato nel call-center dell’azienda, però, è stata una settimana particolarmente frustrante. Mentre le Nike conquistavano gli algoritmi di tutti i social, ascoltava le telefonate di alcuni tra i peggiori attivisti pro-Trump, anche razzisti veri e propri, dovendo rispettare l’obbligo di non rispondere. Nel frattempo, la rete si è riempita di opinioni. Uno dei suoi colleghi è scoppiato a piangere.

Chi lavora in un call-center Nike ha una lista di risposte pronte per gli argomenti più controversi: Lance Armstrong, Kanye West e tutti i personaggi coinvolti in polemiche con il pubblico. Per Kapernick, ci hanno detto, non era stato preparato niente del genere. Solo il classico “Noi di Nike siamo profondamente dispiaciuti che si senta così. Terremo in considerazione il suo feedback”.

Come leggerete tra poco, la frase non ha calmato praticamente nessuno. Abbiamo contattato uno degli impiegati – che ci ha chiesto, per proteggere il suo posto di lavoro, di non rivelare la sua identità – e gli abbiamo chiesto di raccontarci quello che è successo, dal suo punto di vista.

Kaepernick (al centro), accompagnato da due compagni durante la sua protesta

Allora, com’è stata per te la settimana?
Agrodolce. Molti di noi rispettano l’azienda più di quanto facessero in passato. Siamo orgogliosi di aver difeso qualcosa di importante, ma siamo stati tormentati in maniera assurda. Di solito ci passo su, è il mio lavoro e mi pagano per farlo. Ma questa settimana ha colpito nel segno. In tutti i posti di lavoro avrai a che fare con degli abusi: a volte ti fai bastare delle scuse, a volte ci passi sopra, ma questa volta è stato troppo irrazionale. Mi è sembrato di avere a che fare con la proverbiale “maschera del klan”: vuoi togliere la maschera a qualcuno, ma non puoi farlo.

Qual è stata la telefonata peggiore?
Una vecchia collega nera – che per intelligenza e carisma mi ricorda mia madre – si è sentita dire che non importa se “qualche poliziotto fa fuori dei negri una volta ogni tanto, i ragazzini neri si sparano ogni giorno”. Lei pensa che piangere sia una forma di debolezza, ma scoppiò comunque in lacrime: “Mio figlio indossa un completo e la cravatta ogni giorno, ha una sua azienda e guida una bella macchina. Eppure, ogni venerdì lo stendono per terra con una pistola puntata alla testa, lo umiliano perché è nero. Non gli importa se è un CEO, o la sua laurea in una buona università, vedono solo un gangster e una minaccia”, ha detto.

A te non è capitato niente di particolarmente intenso?
Mi ha telefonato un ufficiale di polizia. Mi ha detto: “Credo che Nike abbia fatto una scelta anti-americana, volgare, irrispettosa, non capisco perché usare chi odia l’America”. Ha detto che Nike manca di rispetto ai poliziotti e all’esercito. Normalmente dovremmo rispondere “Noi di Nike siamo profondamente dispiaciuti che si senta così. Terremo in considerazione il suo feedback”, ma io ho detto che il posto che abbiamo nella società limita la nostra abilità di vedere le cose da altri punti di vista. Gli ho detto così perché ho vissuto in un certo modo, sono un teenager nero che ha subito gli abusi della polizia. Mia madre è stata stuprata da un poliziotto negli anni ’70, quando aveva 17 anni. Mio padre aveva un’azienda, e la polizia l’ha trascinato fuori dalla sua macchina e gli ha fatto recitare tutti i numeri di serie dei suoi attrezzi. Niente poteva intaccare l’orgoglio di mio padre, ma loro ci sono riusciti. E ancora non capiscono.

In quanti hanno minacciato di bruciare le loro sneakers?
Molti. Alcuni dicevano che le avrebbero buttate dal cavalcavia.

Nessuno ha pensato di donarle?
Solo un gruppo di persone ha detto di volerlo fare. Un gruppo di mamme repubblicane, che di solito si incontra per parlare di attualità e politica, ha deciso di non supportare più Nike per quella campagna. Mi hanno detto: “Raccoglieremo tutta la roba Nike dei nostri figli e la doneremo. Troveranno un altro brand per i loro sport”. Ho risposto “Wow, è molto bello. Sono felice per voi”. Mi hanno detto di andare al diavolo, che non c’era niente di divertente.

Cosa dice chi minaccia di boicottarvi?
In molti ci chiedono perché odiamo le truppe dell’esercito. Ma non capisco: offriamo sconti per i militari e facciamo stivali per loro, quelli che utilizzavano prima facevano schifo. Poi ci hanno dato un sacco di nomignoli: “Kaepernegri”, “Kaeperfeccia” e cose del genere.

Qualcuno tra i tuoi colleghi ha reagito?
Sì, un mio collega bianco ha attaccato in faccia a un cliente che aveva appena detto la parola con la N. La telefonata era cominciata così: “Come avete fatto a scegliere un tipo del genere? Un deviato, un traditore a rappresentare il vostro brand. Non capisco”. Quando il collega ha detto che tutti hanno il diritto di protestare, il tizio è impazzito e la telefonata è finita. Di solito non siamo autorizzati a fare una cosa del genere, e quando l’azienda ha analizzato la chiamata gli ha detto: “Hey, capiamo perché tu gli abbia attaccato in faccia, davvero. Ma ricordati di non farlo più. Dia prima un avvertimento, poi ringrazia per aver chiamato Nike, e poi puoi concludere la chiamata”. Il mio collega ha detto: “Trovatemi un tizio che con 87 telefonate al giorno non farebbe la stessa cosa”.

Come hanno reagito i tuoi superiori?
Hanno capito che la situazione stava andando fuori controllo, e ci hanno comprato da mangiare. Un premio per aver fatto un buon lavoro, credo, ci hanno ringraziato per aver superato il momento, come a dire “ragazzi, siete i migliori”. Però hanno comprato bagel e caffè da Papa Johns.

Papa Johns? (Il CEO dell’azienda, John Schnatter, è un supporter di Trump)
Sì, mi è sembrato esilarante, ma nessun altro ha colto l’ironia. I miei colleghi erano, tipo, ma ti pare che questi stronzi comprano da Papa Johns?

Dalle tue parole sembra che molte telefonate arrivassero da supporter di Trump. Hanno parlato nello specifico del presidente?
Sì. Dicono che Kaepernick è un terrorista, comunista, anti-americano, traditore. Se a prendere la chiamata era un collega nero, chiedevano di cambiare operatore. Un tizio mi ha detto che Trump sta rendendo l’America di nuovo grande. Gli ho chiesto quand’è stata l’ultima volta. Mi ha detto “Seconda Guerra Mondiale”. Allora gli ho chiesto dei campi di concentramento giapponesi.

Un altro mi ha chiesto dei miei genitori. Poi ha detto che non potevo essere nero, perché non parlavo come un nero. Quel tizio in particolare mi ha fatto impazzire. Mi diceva, non sei nero, stai mentendo. Ho detto: “Signore, capisco quello che dice Kaepernick perché ho subito lo stesso pregiudizio che ha subito lui. Lui parla per chi non ha voce. Non si tratta di non rispettare la polizia, o l’esercito. Si tratta di porre un problema, e di volerlo risolvere tutti insieme”. Ha risposto: “Non è vero, il pregiudizio razziale non esiste, non l’hai mai vissuto, sei un bianco come me”.

Qualche chiamata a favore di Kaepernick?
Sì, soprattutto donne bianche. Una ha detto: “Beh, fatti dire una cosa: non ho mai visto qualcuno così orgoglioso su questa Terra. Non so molto di questa Nike, ma inizierò a comprare i vostri prodotti”. Poi ha attaccato.

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