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Com’è possibile che in Europa ci siano carceri-lager?

Il caso Ilaria Salis riapre anche i precedenti. Storie di persone detenute in condizioni disumane che però, anche in Stati membri dell’Unione Europea, diventano, se non la norma, una realtà sempre più diffusa

Foto: Frames For Your Heart/Unsplash

È quello che Zerocalcare, nel suo fumetto dedicato a Ilaria Salis In fondo al pozzo, chiama appunto «il pozzo»: un posto buio, dimenticato da tutti, in cui le voci di chi è sepolto lì sotto non si sentono, vengono soffocate, e in più è un ambiente squallido, insalubre, mortificante. È il carcere, il luogo che dovrebbe rieducare e che invece diventa una tortura, una tomba.

Le descrizioni di Salis del posto in cui è detenuta, attraverso le lettere di lei e da poco grazie al suo memoriale, le sappiamo: topi, cimici e scarafaggi, celle invivibili, colazione e pranzo ma nessuna cena, cibo poco nutriente e spesso andato a male, zuppe acquose in cui si trovano pezzi di plastica, peli e capelli; e poi lei che racconta di avere un nodulo al seno e non le fanno sapere niente, loro che non le danno assorbenti, carta igienica o sapone per i primi giorni e – notizia di ieri – dopo l’udienza le fanno firmare un verbale in ungherese, di cui non conosce il contenuto. Le autorità del posto schivano le accuse («In Ungheria un detenuto può sempre denunciare la sua condizione, se non la ritiene adeguata»), ma visto l’andazzo è legittimo pensare sia un’ennesima trappola.

E, soprattutto, non sarebbe la prima volta che Bruxelles richiama questo o quello Stato membro, senza però ottenere niente. E sì, c’è un problema con le carceri anche in Europa. Grave. Per cui: com’è possibile che in un’Unione che dovrebbe essere un simbolo di civiltà ci siano carceri in stile lager, dove i diritti alla base della dignità dei detenuti non sono garantiti (e quando si presentano comportamenti degradanti, vale la pena ricordarlo, scatta il reato di tortura) e ci si sta chiusi a tempo indeterminato aspettando processi che fanno acqua in partenza, come nel limbo?

La storia di Salis ha aperto la strada a tante altre, in questi giorni, che ovviamente come la sua prima d’adesso non avevano trovato spazio, né ascolto da parte delle autorità. Tipo quella di Filippo Mosca e Luca Camilleri, due ragazzi che lo scorso maggio erano al festival Sunwave in Romania, dove sono stati arrestati per traffico di droga: la condanna è arrivata dopo sette mesi di custodia cautelare, è a otto anni e tre mesi per traffico internazionale e possesso di droga, nonostante tante prove non tornino e i modi con cui le autorità romene hanno preso le loro confessioni risultano parziali o manomessi. Nessuno tocchi Caino e i loro avvocati si stanno battendo da tempo, ma intanto i due sono nel carcere di Porta Alba, vicino la città di Costanza, un inferno del quale l’Unione Europea si è già lamentata con la Romania, che tra gli Stati membri è quello con le prigioni più sovraffollate e che di recente è stata ammonita dal Comitato europeo contro la tortura affinché risolva la questione. E quindi, non solo i processi controversi, ma anche e soprattutto le condizioni inumane dei detenuti.

Lo spiega Domani, che ha sentito al telefono i due, ma il loro racconto non fa che rimarcare una storia vecchia: trattamenti inumani, topi e scarafaggi, l’acqua che non c’è, i “bagni” che sono buchi nel pavimento pure intasati e in generale degrado e sovraffollamento. «Viviamo una situazione disumana». In più, Filippo ha problemi al colon, segue un regime alimentare preciso e assumere medicinali, e invece lì non riceve cure e non c’è nemmeno acqua – va comprata allo spaccio, perché non viene distribuita e quella dei rubinetti è gialla. A margine: se si dovesse allargare il discorso a tutti gli italiani nel mondo, la situazione sarebbe anche più grave; la Stampa ne conta duemila e, precisa, «ogni caso è diverso, ma per tutti è identica la difficoltà nel riuscire a farsi ascoltare per affermare i propri diritti».

Ma guardiamo a casa nostra, Europa o Italia che sia. Una delle cose che si è letto di più, in questi giorni, è che ok le condizioni tremende di Salis, ma l’Italia non può dare lezioni all’Ungheria. Ne ha parlato, tra gli altri, Ermes Antonucci sul Foglio, lamentando come imputati e detenuti vengano portati in aula qui da noi, per le udienze, con le manette ai polsi, e spesso vengano poi tenuti dietro le sbarre. Un comportamento, s’intende, degradante. E magari si potrebbe pure interpretare come del benaltrismo, per distogliere l’attenzione da Salis in sé, ma la realtà questa è: a gennaio i suicidi nelle nostre carceri sono aumentati, La Stampa scrive che il numero potrebbe presto diventare «da record» e il ministro della giustizia Nordio, preso un po’ per il colletto, annuncia provvedimenti, come un limite al carcere preventivo. Si vedrà.

Resta il fatto che il rispetto dei detenuti, la garanzia dei loro diritti e il valore rieducativo del carcere – che non c’è, se porta a uccidersi – sono argomenti che latitano nel dibattito politico, nostro e di tutto il mondo, da anni. A nessuno sembra interessare davvero. Per cui quando ci si chiede come sia possibile che nell’Unione Europea ci siano posti come quello in cui è rinchiusa Salis o Porta Alba, ecco, prima di tutto si riflette sul ruolo dell’Unione Europea nel garantire o meno la democrazia negli Stati membri (dove può arrivare, dove no, com’è possibile che l’Ungheria, sempre da membro, negli ultimi dieci anni si sia trasformata in una nazione a detta di molti illiberale), ma si ha a che fare anche con un’assenza. Quella delle carceri stessi nelle priorità di un Paese, compreso il nostro. Se in Romania la situazione è questa, e da noi appena migliore, è anche perché a quasi nessuno, in questi anni, è mai importato. Banalmente, perché non portano voti. E si fa finta di non vedere, non s’interviene, si manda in malora. Per poi ritrovarsi la realtà in faccia, e attivarsi. Perché difendere (o attaccare, eh) Salis ora che è tardi evidentemente porta voti.

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