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Come Marine Le Pen ha vinto la guerra per l’egemonia nella destra francese

Purghe, ambiguità sulla Russia, femminismo e animalismo di facciata, enfasi sul dramma familiare, lotta all'immigrazione: così Le Pen è riuscita a emarginare Zemmour, mantenendo ben saldo lo scettro delle destre

Foto di Chesnot/Getty Images

Il ballottaggio del 24 aprile rappresenterà un punto di svolta fondamentale per la Francia: proprio come 5 anni fa, il secondo turno vedrà contrapposti Emmanuel Macron e Marine Le Pen. E, se la maggior parte degli osservatori dà per scontato un secondo mandato dell’attuale inquilino dell’Eliseo, tutti concordano sul clamoroso successo ottenuto dalla leader del Rassemblement National, protagonista di una personalissima revanche inimmaginabile fino a pochi mesi fa: allo stadio attuale, la distanza tra i due sfidanti si aggira tra i due e i quattro punti percentuali – i sondaggi migliori danno Macron al 52% e Le Pen al 48% – laddove cinque anni fa Macron vinse col 66% dei consensi.

Le Pen ha saputo ripresentarsi in stato di grazia all’appuntamento elettorale anche grazie alla sua capacità di ribadire la sua egemonia nella destra del fronte politico, capitalizzando su alcune divisioni che hanno creato una certa confusione tra gli elettori di stampo conservatore.

Infatti, come ha scritto Théo Aiolfi sull’edizione americana della rivista Jacobin, gli ultimi mesi sono stati interamente monopolizzati da una sorta di “guerra civile” che ha visto contrapposti due differenti filoni della extrême droite: il primo, incarnato da Marine Le Pen, è quello dei “modernisti”, che lavorano strenuamente per la costruzione di un “fronte popolare populista”; il secondo è invece quello dei cosiddetti “tradizionalisti”, che promuovono un disegno di convergenza che possa realizzare la tanto agognata union des droites, vale a dire un riavvicinamento tra destra ed estrema destra nel segno della lotta contro la “sostituzione etnica”, l’abortismo, i diritti delle persone omosessuali e la mondializzazione; quest’ultimo è il fronte dominato dalla figura enigmatica del “polemista” Éric Zemmour, ex firma del quotidiano conservatore Le Figaro, opinionista televisivo dai toni abrasivi e autore di alcuni pamphlet che hanno fatto parecchio discutere – come il famoso saggio Il suicidio francese, pubblicato nel 2016, in cui puntava il dito contro «le élite politiche e artistiche eredi del ’68», colpevoli a sua detta di aver frantumato l’unità del popolo francese attraverso continui incentivi all’immigrazione di massa e al multiculturalismo.

A partire dalla scorsa estate, Zemmour ha provato a calarsi nei panni di nuovo maître à penser dell’universo conservatore francese. Ha fondato un soggetto politico ad hoc, Reconquête!, ed è riuscito a ottenere l’appoggio di grosse alleanze mediatiche e d’interesse, come l’emittente televisiva CNews e il canale YouTube Livre Noir. Da quel momento in poi, ha iniziato a presentarsi nei salotti televisivi più inclini alla destra come un personaggio uscito da un romanzo di Michel Houellebecq: ultraconservatore, ossessionato dalla lotta alle ondate migratorie, dal proposito di abbattere l’islamizzazione radicale che minaccia l’identità del Paese e dalla necessità di incentivare un aumento dei poteri della polizia e approvare leggi maggiormente restrittive sul fronte della sicurezza interna – non a caso, lo stesso Michel Houellebecq lo ha incensato come «la figura più interessante della contemporaneità tra i cattolici non cristiani». In una fase iniziale, Zemmour era riuscito a porsi come un’alternativa credibile, creando più di qualche insidia alla stabilità elettorale di Marine Le Pen. La sua ascesa lo aveva posto in condizione di erodere i consensi del Rassamblement National e di mettere in discussione la leadership della destra francese.

Grazie a una spiccata abilità di cooptazione, Zemmour ha attirato dalla sua parte un flusso costante di figure di spicco legate al partito di Le Pen, tra cui Gilbert Collard e Nicolas Bay, entrambi recentemente estromessi dalla commissione di selezione dei candidati del RN – quest’ultimo è stato addirittura accusato di essere una spia col mandato esplicito di sabotare la campagna di Le Pen. Tuttavia, nessuno di questi ammutinamenti ha eguagliato l’impatto mediatico della scelta che Marion Maréchal, nipote di Marine e figura di spicco del partito (sino al punto di aver dato vita a una vera e propria corrente interna al partito, quella dei “marionisti”) ha compiuto lo scorso 6 marzo, quando ha annunciato esplicitamente il proprio appoggio la campagna di Zemmour. Spesso descritta dai suoi collaboratori come “il Graal” che avrebbe ribaltato la partita elettorale dalla parte del polemista, Maréchal aveva mantenuto un certo grado di suspense e riserbo su questa decisione, che però era nell’aria fin da gennaio.

Le Pen sapeva che la benedizione pubblica di sua nipote nei confronti del suo rivale era soltanto una questione di tempo; di conseguenza, ha pensato bene di sfruttare il ventilato tradimento per cucirsi addosso una nuova immagine, seguendo quello che gran parte degli osservatori ha etichettato come un processo di “umanizzazione”. Adottando un tono profondamente emotivo, ha descritto la scelta di Maréchal come «brutale, violenta e difficile», soprattutto perché «Lei l’ha cresciuta con sua sorella nei primi anni della sua vita». Inquadrando la decisione di Maréchal nella dimensione privata del conflitto familiare, Le Pen è riuscita a presentarla come una sorta di “cesaricidio politico”, minimizzando l’impatto politico della voltafaccia di sua nipote e rivitalizzando i lealisti del Rassamblement National.

La mossa successiva di Le Pen è stata quella di imprimere un new look al suo partito, presentandolo sotto una veste più moderata e trasformandolo nell’unico argine possibile per evitare l’avanzata di Zemmour a destra: a fine febbraio, ha invitato direttamente i giornalisti a indagare sulla presenza di neonazisti tra le file del suo rivale. In quell’occasione Libération, storico quotidiano della sinistra francese, aveva palesato una certa ammirazione per la determinazione mostrata dalla candidata di Rassemblement National, che negli anni ha saputo portare a compimento una serie di epurazioni con cui è riuscita a «emarginare un certo numero di persone che dovrebbero essere escluse da tutti i movimenti politici francesi».

Inoltre, ha enfatizzato all’estremo il tema dei “diritti delle donne” , ovviamente in maniera del tutto strumentale alla sua agenda politica, che continua a individuare il proprio core business nella lotta intransigente all’immigrazione – il più delle volte, quello che Le Pen ha dato in pasto ai suoi elettori ha acquisito la forma di una sorta di “femminismo in salsa anti-islamica” – e dedicato attenzione al tema dei diritti degli animali, nell’ottica di allargare ulteriormente la sua platea a tipologie di votanti che, fino a qualche anno fa, non individuavano alcun punto di contatto con la leader del Rassamblement National.

In ultimo, non bisogna sottovalutare la sua gestione virtuosa dell’affaire Putin: pur non avendo mai nascosto le proprie simpatie nei confronti del leader del Cremlino, Le Pen ha saputo giocare nelle zone d’ombra, mettendo in mostra un distaccamento – mai pronunciato esplicitamente – dalla figura egemone del presidente russo. Ad esempio, ha giustificato la propria contrarietà alle sanzioni nei confronti di Mosca sulla base della difesa degli interessi dei cittadini francesi e della lotta contro l’aumento dei prezzi dell’energia determinato dal conflitto. Inoltre, ha sin da subito fornito il proprio assenso all’accoglienza dei rifugiati di guerra ucraini, segnando un ulteriore passo in avanti nel suo processo di umanizzazione. 

Con questi ingredienti, Le Pen ha vinto la battaglia per l’egemonia a destra, confermandosi come una delle politiche più abili della sua generazione.

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