Com'è la vita in Israele, un'anteprima del nostro futuro post-pandemia | Rolling Stone Italia
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Com’è la vita in Israele, un’anteprima del nostro futuro post-pandemia

A oggi, infatti, Israele ha vaccinato più di metà della sua popolazione. I nuovi casi sono crollati, l'economia è ripartita e si comincia a tornare alla normalità – ma in modo diverso dal passato

Com’è la vita in Israele, un’anteprima del nostro futuro post-pandemia

MENAHEM KAHANA/AFP via Getty Images

Molto spesso nell’ultimo anno ci siamo chiesti come sarà il futuro post-pandemia. E ce lo chiediamo ancora. Ma adesso c’è chi questo futuro lo sta già vivendo nel presente: i cittadini israeliani. Come scrive il New York Times, l’efficacia delle campagna vaccinale in Israele fa sì che il Paese sia un caso di studio su come andranno le cose quando si sarà raggiunto un livello di vaccinazioni abbastanza alto da permettere alla società di ripartire, e di quali misure di sicurezza verranno prese per sostenere questa ripartenza. 

A oggi, infatti, Israele ha vaccinato più di metà della sua popolazione. I nuovi casi sono calati drasticamente da circa 10mila al giorno a gennaio a poche centinaia. L’economia è ripartita. I vaccinati hanno un “passaporto vaccinale” apposito, il Green Pass, che si scarica e sul cellulare e si porta sempre con sè e che consente di tornare a una vita parzialmente normale: cenare al chiuso al ristorante, andare in albergo, partecipare ai primi eventi in presenza sia all’aperto che al chiuso, presenziare a celebrazioni religiose, andare in palestra, in piscina, vedere gli amici. Pianificare vacanze all’estero nei Paesi che si sono detti pronti a riaprire ai turisti previa vaccinazione. 

Il sistema è imperfetto e non è detto che il peggio sia davvero passato: ritardi imprevisti nella produzione di vaccini e nuove varianti resistenti al vaccino potrebbero far precipitare di nuovo le cose. Ma si tratta comunque di un assaggio del futuro post-pandemico. 

L’autrice dell’articolo del New York Times, la giornalista e scrittrice Isabel Kershner, racconta di essere andata di recente a sentire un concerto in uno stadio. Il pubblico era ristretto, 500 persone su 30mila posti, e c’era ancora distanziamento sociale e mascherina obbligatoria. Ma l’atmosfera era di eccitazione e di appartenenze a una nuova classe privilegiata di persone: quelle che sono state vaccinate.

Tra queste non ci sono i palestinesi – a testimonianza del fatto che come prima del Covid e nel Covid, anche dopo il Covid le disuguaglianze permangono. La campagna di vaccinazione palestinese sta iniziando solo adesso, per la maggior parte usando dosi donate da altri Paesi, mentre in Israele si discute se il Paese ha o meno obblighi morali di aiutare gli abitanti dei territori che occupa da decenni. 

 

Nonostante questo inizio di ritorno alla normalità, però, c’è una questione interessante: l’antivaccinismo non è scomparso. Circa un milione di persone, il 10% della popolazione, ha scelto di non vaccinarsi. Alcuni per motivazioni ideologiche, altri per generiche paure e la volontà di vedere prima il risultato del vaccicno sugli altri. Ma più passa il tempo e più si riparte, più questa parte di società è messa ai margini e suscita sempre meno empatia e comprensione. La loro decisione fa sorgere una serie di questioni di non facile soluzione: è giusto discriminarli? Bisogna obbligarli a fare il vaccino? È giusto obbligare chi invece si è vaccinato a stare a contatto con loro?

Per cercare di risolvere questo problema, il governo ha cominciato a consentire un ritorno alla normalità parziale sulla base non del Green Pass e quindi della vaccinazione ma dei test rapidi contro il coronavirus. Allo stesso tempo, le vaccinazioni cominciano a causare controversie legali: il Ministero della Salute ha cercato di distrubire alle autorità locali liste di persone non vaccinate, così che queste potessero identificarle e cercare di convincerle. Ma gruppi di pressione della società civile hanno fatto causa perché sostengono che questa misura sia una violazione della privacy.