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Clima e meteo non sono la stessa cosa, e l’informazione italiana deve capirlo una volta per tutte

A poche settimane dalle elezioni, i media devono impegnarsi maggiormente nel racconto della crisi climatica in atto, evitando sciatterie, approssimazioni e improbabili 'contraddittori'

Eventi normali come acquazzoni in estate oppure temperature gelide e nevicate in inverno, che a uno sguardo superficiale sembrano andare nella direzione opposta al riscaldamento climatico, in realtà non smentiscono l’esistenza della crisi ambientale in atto. Questo perché si continua a confondere il clima con il meteo, ed è un errore comune e diffuso un po’ ovunque.

Lo stesso ex Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha più volte dimostrato di confondere il meteo con il clima, tanto che il New York Times provò, nel 2019, a spiegargli la differenza con una metafora diventata celebre: «Il meteo è simile alla quantità di soldi che hai nel portafogli oggi, mentre il clima è il tuo intero patrimonio. Un miliardario che ha dimenticato a casa per un giorno il proprio portafoglio non è povero e allo stesso modo una persona povera che s’imbatte in qualche centinaio di dollari non diventa improvvisamente ricca. Ciò che conta è ciò che accade nel lungo periodo», scriveva la giornalista climatica Kendra Pierre-Louis.

Dunque, meteo e clima non sono la stessa cosa, hanno campi di studio ed esperti di riferimento diversi e la caratteristica fondamentale che li differenzia è il tempo: il meteo guarda a un futuro molto prossimo (minuti, ore, giorni), mentre il clima studia un arco di tempo ben più lungo (anni, decenni, secoli). Il tempo è anche uno dei fattori per cui le previsioni, più sono lontane nel tempo, meno sono accurate: già oltre i 7-10 giorni perdono affidabilità. Ad esempio, l’Aeronautica Militare, che offre uno dei servizi sul meteo tra i più autorevoli, fornisce previsioni soltanto per le prossime 48-72 ore – oggi, domani e dopodomani.

Per quanto diversi, sia meteo che clima hanno il potere di influenzare le nostre vite, anche se non allo stesso modo. Prendere l’ombrello se piove, uscire in maglietta se fa caldo, temere possibili ammaccature alla macchina se grandina: questi sono alcuni esempi di come il meteo cambia il nostro modo di vivere una giornata. Eventi spesso descritti dal meteorologo in tv usando i disegni del sole, della nuvola, della pioggia, della neve.

Il clima, invece, influenza a sua volta la nostra vita ma su una scala diversa: non è facile da prevedere (per il fattore tempo, in questo caso molto ampio) ma le sue variazioni sono molto più pervasive. Lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello dei mari, la siccità e la mancanza di acqua, sono alcuni eventi climatici. Questi eventi sono studiati dai climatologi e hanno il potere di condizionare l’economia, la cultura, il nostro stile di vita, o, ancora più banalmente, il nostro lavoro (come l’agricoltura e la produzione di energia elettrica) e le nostre abitudini (il razionamento dell’acqua, tra le altre cose).

Purtroppo lo stesso crollo di ghiaccio e roccia avvenuto alla Marmolada ha la sua genesi nella crisi climatica. «La crisi climatica in montagna si manifesta anche come aumento delle condizioni di rischio, legate a crolli e valanghe», spiega al Corriere la professoressa Elisa Palazzi, docente di Fisica del clima all’Università di Torino.

L’informazione e i media in tutto questo hanno la loro responsabilità a vari livelli, nel descrivere quello che sta accadendo e nel fare chiarezza nella confusione e nel caos. Il giornalismo fatto nel migliore dei modi permetterebbe di creare consapevolezza sullo stato attuale del riscaldamento climatico, ma anche di capire perché esiste, quali sono le azioni di aziende e politici che hanno causato nei decenni questa crisi e in che modo se ne può uscire.

Alcuni degli elementi che più ostacolano una descrizione accurata di quello che accade è proprio quando non si fa chiarezza e non si collegano eventi drastici (alluvioni, inondazioni, scioglimenti dei ghiacci, temperature altissime) alle loro cause. «Nella maggior parte della stampa italiana c’è una dissociazione evidente: la scala e la gravità della crisi sono riconosciute e visibili, ma non si mette mai in discussione una politica economica ed energetica che continuerà ad aggravare quella crisi», spiega a Rolling Stone il giornalista Ferdinando Cotugno, che si occupa, tra le altre cose, di clima e ambiente. A questo aggiunge che lo stato attuale dell’informazione sul tema «è l’effetto di tante cose, ma soprattutto della guerra in Ucraina e della crisi energetica: c’erano voluti trent’anni per accoppiare finalmente il discorso del clima e quello dell’energia, sono bastati pochi mesi per disaccoppiarli di nuovo. E in questo l’informazione è il riflesso della politica».

Uno degli aspetti più gravi è quando la stampa prende parte, consapevolmente o meno, alla diffusione del negazionismo climatico che «in Italia è tornato a essere rampante e vispo, sia in testate che sono sistematicamente anti-scienza, sia in testate che su tutto il resto sono radicalmente pro-scienza, ma lasciano margine sulla crisi climatica per dare voce ai pochissimi esperti in dissenso e completamente fuori dal consenso della scienza del clima. I dibattiti che vediamo in televisione (con il famoso scontro Borgonovo vs Mercalli) sono il riflesso di quello che accade sulla carta stampata conservatrice, che sta usando il clima per fare una nuova culture war», afferma Cotugno.

Inoltre il riemergere di negazionisti crea dibattito su un tema che, com’è ovvio che sia, non ha bisogno di contraddittori. «Moltissimi negazionisti in Italia invitati alle trasmissioni ripetono le stesse cose da anni, teorie false, dati fabbricati o decontestualizzati – spiega a Rolling Stone con dei vocali su Whatsapp la giornalista climatica Stella Levantesi, autrice anche del libro I bugiardi del clima – Il problema è che le loro prospettive vengono diffuse su testate o trasmissioni che spesso possono apparire autorevoli. Questo confonde i lettori e le lettrici perché dà l’impressione che il dibattito sull’esistenza della crisi climatica e sulla responsabilità antropica della crisi climatica sia ancora in corso. E non è così, non è assolutamente così», dice Levantesi.

Come accennato, la disinformazione avviene per vari motivi: la superficialità è uno di questi, o anche scatenare litigi o fare a gara a spararla più grossa possibile, sperando di essere letti, visti, ascoltati. Ma non solo. «Ci sono anche motivazioni intenzionali da parte di alcuni attori, per questioni politiche, ideologiche, economiche, di continuare a produrre questa disinformazione, continuare a promuovere le prospettive negazioniste e l’obiettivo finale è di ostacolare il più possibile l’azione per il clima, di rallentare le politiche climatiche», spiega Levantesi.

Per contrastare queste azioni è importante evitare di parlare di clima solo per eventi tragici o essere catastrofici. «Una buona pratica è collegare sempre quello che accade per effetto del clima alle sue cause», dice Cotugno. Capire chi ha più o meno responsabilità è un altro passo fondamentale: «Dobbiamo collegare gli impatti della crisi climatica a chi la crisi climatica l’ha prodotta o ha contribuito a produrla», sostiene Levantesi.

Sempre Levantesi aggiunge che individuare la responsabilità riguarda sia chi la crisi l’ha prodotta e la sta producendo, come le compagnie di combustibili fossili, l’industria agroalimentare, gli allevamenti di carne. Sono settori che tra l’altro al suo interno talvolta hanno aziende che fanno greenwashing (cioè che si presentano come ecosostenibili senza esserlo nella realtà). Ma la stessa responsabilità grava sugli attori che la crisi climatica la sta finanziando, come le banche o chi fa investimenti in progetti fossili. È importante indagare e capire chi sta compiendo queste azioni: «non per puntare il dito, ma per comprendere innanzitutto come siamo arrivati fin qui e poi per agire, andare avanti in maniera diversa e anche per responsabilizzare quelli che sono gli attori che hanno inquinato e che continuano a inquinare», continua Levantesi.

Possiamo ancora agire, ma comunicare questa situazione solo con i dati non basta. «È importante che ci sia un’informazione che offre degli strumenti al pubblico per comprendere quelle che sono le dinamiche della crisi climatica», prosegue Levantesi. Questo perché «È ancora una storia che possiamo scrivere e cambiare – continua Cotugno – e ci sono sostanziali differenze tra un mondo di 1.5°C più caldo rispetto a 2°C più caldo e così via. Sono differenze che riguardano il cibo, la salute, la vita o la morte, la geografia, le migrazioni. Sappiamo che la situazione è brutta e che peggiorerà, il nostro compito come giornalisti è spiegare che oggi, in questi anni, decidiamo di quanto peggiorerà».

Questo lavoro è fondamentale anche per la lotta alle disuguaglianze, perché l’emergenza climatica coinvolge ogni singola persona e ogni singolo settore, ma ha ricadute maggiori su chi possiede meno e chi ha meno soldi. L’emergenza grava già su milioni di persone e non tutti hanno il privilegio di analizzare le sfide che si prospettano in futuro. «Il giornalismo deve contribuire al racconto del mondo che si potrebbe costruire contrastando la crisi climatica, della possibilità di ricostruzione sociale e politica che c’è in questo sforzo. Ci sono tanti discorsi su cosa fare prima del 2030, 2050, 2100 e poche discussioni su come potrebbe essere il mondo dopo: come sarebbe la vita decarbonizzata e a emissioni zero? Dobbiamo iniziare a parlarne. Altrimenti, il solo messaggio: “facciamolo per evitare la catastrofe” non basterà» conclude Cotugno.

Esistono valide fonti da cui informarsi su temi che riguardano il clima. Cotugno ad esempio cita, tra gli altri, le newsletter Il climatariano di Tommaso Perrone, Il colore verde di Nicolas Lozito, attivisti come Giovanni Mori e Sofia Pasotto, saggi come il già citato I bugiardi del clima di Stella Levantesi, ma anche L’altro mondo di Fabio Deotto, Che cos’è la transizione ecologica curato da Gianluca Ruggieri, Oro blu di Edoardo Borgomeo. Tra la stampa più tradizionale in Italia il quotidiano Domani ci ha investito dalla nascita, mentre tra i giornali internazionali il Guardian e il New York Times dedicano una grande e estesa copertura. Infine, ma questo lo aggiunge l’autore di quest’articolo, lo stesso Rolling Stone lavora da diverso tempo sul tema.

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