Ci siamo già passati: la ridistribuzione delle terre è un classico vecchio quanto la guerra in Libia | Rolling Stone Italia
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Ci siamo già passati: la ridistribuzione delle terre è un classico vecchio quanto la guerra in Libia

Che senso potrebbe avere nel XXI secolo garantire un piccolo appezzamento di terra alle famiglie con tre figli? La risposta è politica: la destra di Salvini ci vende l'illusione di un ritorno ai campi per sfuggire alle turbolenze del presente, ma che non ha niente a che fare con le difficoltà delle famiglie.

Ci siamo già passati: la ridistribuzione delle terre è un classico vecchio quanto la guerra in Libia

Dettaglio di un manifesto d'epoca della "Confederazioe fascista lavoratori agricoltura"

La distribuzione delle terre coltivabili è stata vista nel tempo come una riforma sociale ineludibile per favorire la piccola proprietà contro il latifondo, tanto necessaria quanto difficile da attuare. Negli Stati Uniti del XIX secolo, l’Homestead Act del 1862 garantiva a tutti gli americani, inclusi gli schiavi che cominciavano a essere liberati durante la guerra civile, 160 acri di terra federale, pari a circa 650mila metri quadrati. Per garantire una fonte di reddito a una massa di poveri altrimenti difficilmente accontentabili senza iniziative ben più radicali.

L’Italia non ha fatto eccezione. E nell’intenzione del governo Conte, la proposta di garantire un piccolo appezzamento di terra demaniale alle famiglie con almeno tre figli vuole garantire una qualche forma di reddito che in un certo qual modo possa aiutare nella tutela di un territorio fragile e soggetto a forti sconvolgimenti climatici. Una riforma sociale, dunque. Come volevano esserle quelle preunitarie del Regno delle Due Sicilie sotto la guida di Re Giuseppe Bonaparte del 1806 per redistribuire le terre in mano alla nobiltà. Ma dopo la restaurazione borbonica e il processo unitario, la borghesia agraria diventò un alleato chiave della giovane nazione ed alienarsela voleva dire iniziare pericolosi moti centrifughi. Quindi anche quando vennero sottratte le terre alle comunità monastiche, non si prese in considerazione l’ipotesi di una redistribuzione verso il basso.

Solo dopo la Prima Guerra Mondiale venne annunciato dal generale Diaz un piano per l’assegnazione delle “terre agli italiani”. Ma il sistema liberale non resse alle pressioni della guerra e le tentazioni autoritarie di quel periodo vennero portate a compimento dal regime fascista. Ma come poteva un regime che si poneva come rivoluzionario, almeno a parole, conservare lo status quo? La soluzione venne trovata nell’assegnazione delle terre coloniali in Libia negli anni ’30, una versione mediterranea dell’Homestead Act che però venne interrotta dalla sconfitta dell’Asse e dal definitivo accantonamento del fragile Impero fascista.

Nel dopoguerra, la riforma agraria era ormai ineludibile: nel 1950 il governo centrista di Alcide De Gasperi abolì la mezzadria e attuò uno spezzettamento del latifondo. Questo provvedimento da un lato favorì l’avvio della cooperazione in campo agricolo sbloccando l’ammodernamento dell’imprenditoria in quel campo che fino a quel momento rimaneva scarsamente redditizia e arretrata, dall’altro arrivò in un momento in cui, grazie ai soldi del piano Marshall, l’Italia entrava in un’industrializzazione accelerata per mettersi al pari delle altre democrazie occidentali, riducendo in modo sensibile il numero di lavoratori nel settore agricolo, risolvendo così la questione sociale nelle campagne e trasferendola, se così si può dire, nelle grandi fabbriche delle città.

Quindi che senso potrebbe avere nel XXI secolo una redistribuzione delle terre demaniali in un settore quale quello agricolo dove, secondo l’Istat, nel 2017 sono occupate soltanto 919mila persone su 60 milioni? La risposta sta in quella che è l’essenza di ogni discorso politico: la narrazione. Una delle due componenti del governo, la Lega di Matteo Salvini, si pone come una destra di tipo culturale. Cosa vuol dire in questo caso? Tramite un recupero che ha radici nell’antica Roma e riletto ai tempi del fascismo nel movimento denominato “Strapaese”, la campagna e il lavoro agricolo sarebbero i veri toccasana contro l’alienazione dell’uomo moderno di fronte alla tecnologia e allo scioglimento dei legami sociali tradizionali. La campagna, secondo questo discorso politico, sarebbe il luogo dove lo Spirito può ritrovare una sua ragion d’essere più profonda e sfuggire quindi alle influenze corrutrici delle èlite globaliste e senza radici.

Ma questa, lo dicono i numeri, è un’illusione. L’agricoltura, per chi vive nelle città, può essere un piacevole passatempo per coltivare una quantità limitata di ortaggi e piccoli frutti per il consumo personale. Non certo una fonte di reddito in un settore dove anche l’agrobusiness è in affanno contro la concorrenza dei prodotti comunitari o extraeuropei. Quindi, come si può definire questo provvedimento? Un provvedimento social per chi sposa la narrazione descritta in precedenza. L’illusione di un locus amenus in cui sfuggire dalle turbolenze del presente, ma che in realtà poco può fare a favore di chi ha difficoltà dal punto di vista reddituale. Intendiamoci: si può anche tornare a coltivare l’orto, come auspicava nel suo finale il Candido di Voltaire. Senza dimenticarci però che altro non è che un’attività che può certamente rinfrancare ma non fornire una fonte stabile di guadagno.