Chi vive nelle case occupate di piazzale Lotto? | Rolling Stone Italia
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Chi vive nelle case occupate di piazzale Lotto?

Siamo stati allo ‘Spazio di Mutuo Soccorso’, le palazzine di piazza Stuparich dove vivono una trentina di famiglie. «Sono imprenditori in difficoltà, ragazzi che lavorano in nero. Qui occupare è una necessità»

Chi vive nelle case occupate di piazzale Lotto?

Il mercoledì, al civico 18 di piazza Stuparich (ex periferia operaia milanese, a due passi dal nuovo complesso di City Life e dall’ormai gentrificato quartiere Portello), è giornata di assemblea condominiale. Non immaginatevi vicini intenti a litigare sui rumori molesti o sui bidoni della differenziata, però: queste quattro palazzine degli anni ’30 circondate da un ampio giardino cintato, di proprietà di un grosso gruppo immobiliare, non sono come tutte le altre. O meglio, fino a una quindicina di anni fa lo erano, ma a un certo punto gli inquilini hanno cominciato progressivamente a trasferirsi altrove: colpa degli affitti diventati ormai insostenibili, stando alle voci insistenti che si rincorrono nel quartiere. Nel giro di breve i caseggiati in questione diventano alcuni tra i tanti edifici disabitati di Milano, forse tenuti vuoti a scopo speculativo, chissà. E lo restano per sette anni.

Tutto cambia nel 2013, quando il Comitato Abitanti di San Siro, che si batte contro sgomberi ed emergenza abitativa nelle vicine case popolari, passa all’azione e decide di occupare le palazzine ormai deserte, ribattezzando il luogo SMS, ovvero Spazio di Mutuo Soccorso. «C’era l’esigenza di ricollocare una serie di nuclei familiari che in quel momento erano sotto sfratto, o erano già stati sfrattati, e si trovavano costretti a passare la notte nei dormitori per senzatetto» racconta Alice (nome di fantasia), una delle attiviste del comitato. Mentre parliamo, attorno a noi l’attività prosegue frenetica: c’è chi annaffia l’orto in un angolo del cortile, chi prepara le buste della spesa solidale da distribuire ai bisognosi tramite staffetta, chi controlla che le grondaie non perdano, chi va e torna dal lavoro, chi scende per una partita di pallone o a carte con i vicini in attesa dell’assemblea. Ogni settimana abitanti e comitato fanno il punto della situazione, si spartiscono i lavoretti da fare, stabiliscono i turni per presidiare la portineria e le altre attività aperte al pubblico. «L’idea era quella di non renderlo semplicemente uno spazio abitativo, ma aperto alla città, con progetti sociali: oltre agli appartamenti ospitiamo un mercatino dello scambio, una palestra popolare, un gruppo d’acquisto solidale, una serigrafia, un cinema all’aperto…». E perfino un seminario del Politecnico nell’ambito della Milano Arch Week 2018, cosa che tra le altre ha convinto i giudici del Tar a determinare «l’assenza di degrado urbano» nella gestione degli immobili in questione, e a bocciare le richieste urgenti di sgombero avanzate dalla proprietà.

Quando hanno fatto il loro ingresso nello stabile, i nuovi arrivati hanno messo in atto delle opere di restauro dei palazzi, mettendoli in sicurezza e addirittura cominciando a coltivare e piantumare le aiuole comunali davanti al cancello, anche loro abbandonate a se stesse da anni. Le persone che fanno parte del comitato sono oltre un centinaio, spiega Alice: «Alcuni vivono sulla loro pelle la mancanza di un tetto sopra la testa, altri sono semplicemente solidali». Se i secondi hanno le competenze più disparate (psicologi, educatori, geometri, elettricisti, falegnami…), l’età e il background dei primi sono assolutamente variabili: «Purtroppo gli sfratti non guardano in faccia nessuno. Ci è capitato di andare in aiuto di ultra-ottantenni, famiglie con bambini disabili, persone che non avevano nessun posto al mondo in cui andare». Come prima cosa, il comitato cerca di rimandare il più possibile gli sgomberi, a volte attraverso vertenze o richieste al comune, altre con picchetti che chiamano “colazioni solidali”. Non a caso, tra le molte attività che ospita SMS c’è anche uno sportello sindacale chiamato A.S.I.A., che si occupa di assistere le persone in difficoltà sulla questione abitativa. Perfino nella ricchissima Milano è fin troppo facile far parte di questa categoria.

Il numero di abitanti effettivi varia a seconda del periodo, ma attualmente negli spazi di piazza Stuparich 18 abitano una trentina di nuclei familiari. «In percentuale, sono circa un 40% di italiani e un 60% di migranti» racconta Alice. «Abbiamo tante storie diverse. Il piccolo imprenditore agricolo a cui è fallita l’azienda e che si è ritrovato pieno di debiti; i giovani genitori che non riescono a pagare un affitto a causa dei lavori precari; i ragazzi che lavorano in nero ai mercati». Per tutti loro occupare un appartamento è l’ultima spiaggia, tanto che si parla di cosiddetta “occupazione per necessità”, spiega. «È la misura estrema di chi non ha un reddito per potersi permettere una casa. Ovviamente non siamo a favore né del racket che specula sulle occupazioni abusive, né di chi occupa la prima casa di qualcun altro: quello che facciamo noi è molto diverso, ovvero valorizzare immobili sfitti da tempo e lasciati al degrado». Il loro sogno è che il comune riassegni tutte le case popolari che attualmente sono vuote o in attesa di ristrutturazione: «Se le dessero a chi ne ha diritto, non ci sarebbe neanche la necessità di realtà come la nostra. È chiaro, però, che se lasci degli appartamenti inutilizzati in una città dove c’è un’emergenza abitativa spaventosa (la lista d’attesa per una casa popolare può arrivare anche a 10-15 anni), la gente si organizzerà in altro modo. E personalmente non credo che chi sceglie di farlo vada criminalizzato».

Un altro diritto fondamentale, oltre alla casa, sarebbe quello alla residenza, ovvero un indirizzo riconosciuto a livello anagrafico e amministrativo: se non ce l’hai, sei tagliato fuori da molti servizi essenziali. Attualmente, dice Alice, questo è uno dei problemi principali degli occupanti per necessità. «In base all’articolo 5 del Piano Casa Renzi-Lupi, se hai occupato una casa non puoi avere la residenza: il che vuol dire non avere accesso al medico di base, al plesso scolastico più vicino e a tante altre cose. Ci sono persone che vivono qui e sono costrette a portare i bambini a scuola dall’altra parte della città, ad esempio». E il Covid non ha fatto che peggiorare ulteriormente la situazione, amplificando le disuguaglianze, anche perché spesso essere invisibili per la burocrazia vuol dire anche restare esclusi da bonus o aiuti elargiti dallo stato. «Nei mesi del lockdown abbiamo distribuito ogni settimana la spesa a circa 70 famiglie in difficoltà, e stiamo ricominciando anche in questi giorni» ricorda Alice. «Ci siamo attivati anche per consegnare tablet ai bambini e ragazzi che ne avevano bisogno per la didattica a distanza. Purtroppo, però, possiamo fare poco per chi invece vive in situazioni malsane e di sovraffollamento». I veri effetti della pandemia sull’emergenza abitativa si vedranno nei prossimi mesi, secondo il Comitato Abitanti di San Siro: «Al momento c’è stato un blocco degli sfratti, ma se pensiamo a quante persone ultimamente hanno perso un lavoro precario o in nero, o non hanno ancora ricevuto la cassa integrazione, la situazione non potrà che peggiorare» osserva Alice. «Nessuno diventa moroso perché lo vuole diventare, nessuno vuole vivere con l’angoscia di essere buttato in mezzo a una strada: ma se chi è povero diventa ancora più povero, è quasi inevitabile».

È un meccanismo che Jorge (nome di fantasia) conosce fin troppo bene. Abita in uno degli appartamenti di SMS da quattro anni, insieme alla moglie e al figlio. «Vivere qui è un’esperienza bellissima, è una vera comunità» dice entusiasta. «Ognuno si fa carico del suo pezzettino, e se qualcuno sta smarrendo la strada, si affronta il problema tutti insieme per aiutarlo a rimettersi in carreggiata. Anche perché qui vivono tanti bambini, e noi adulti dobbiamo dare il buon esempio». È arrivato in Italia dall’America Latina agli inizi degli anni 2000, con un regolare visto, nella speranza di una vita migliore per lui e la sua famiglia. Era entusiasta all’idea di venire qui, perché ha una passione per la cultura e la storia del nostro paese. «Ero determinato a farmi strada: prima di emigrare lavoravo negli uffici amministrativi di una multinazionale, e speravo di trovare qualcosa di simile anche qui. Non immaginavo che ci fossero così tanti pregiudizi nei confronti degli stranieri. Ci sottovalutano tantissimo, pensano che siamo abbastanza istruiti per fare certi mestieri».

Seguendo i consigli dei suoi connazionali Jorge si trasferisce subito a Milano, dove c’è più lavoro ed è più facile trovare una casa. «I primi mesi, però, sono stati davvero una prova del fuoco. È vero, gli appartamenti in affitto erano tantissimi, ma erano minuscoli e praticamente dei dormitori: i proprietari ci ficcavano dentro 14, 15 persone. Per me è stato uno shock». A un certo punto riesce ad ottenere un impiego come magazziniere in nero, e anche una casa vera e propria: «Un paio di amici hanno conosciuto un marocchino che abitava a Quarto Oggiaro e cercava coinquilini. In realtà non era il proprietario dell’appartamento, come abbiamo scoperto dopo: aveva sfondato la porta e l’aveva occupato, ma ci faceva pagare l’affitto come fosse suo». Sul momento poco importa, però. «Finalmente per 400 euro al mese avevo la mia stanzetta, dove dormivo con tutta la mia famiglia, che nel frattempo mi aveva raggiunto in Italia». Ma su altri versanti le cose si complicano: «Sono riuscito ad ottenere un contratto regolare con l’ultima sanatoria che c’è stata, ma il mio ex datore di lavoro mi ha chiesto di pagarlo in cambio della firma sui documenti per il permesso di soggiorno» ricorda. «Ho fatto un prestito con un tasso di interesse al 10% per potermelo permettere». I disaccordi con il capo aumentano, fino all’inevitabile epilogo: «La lettera di licenziamento è arrivata la vigilia di Natale. Non avevo più niente, e non sapevo di che vivere. Ho conosciuto la fame, il freddo, la disperazione, i sensi di colpa nel vedere mio figlio piccolo che piangeva e mi chiedeva “papà, perché mi hai portato qui?”. Mia moglie è caduta in depressione, tornavo a casa e la trovavo a fissare il muro. È stata una pugnalata al cuore» dice commosso.

Dopo mesi a vivere di espedienti, Jorge ottiene un altro contratto e riesce tra molti sacrifici a mettere insieme la caparra per affittare un appartamento alle porte di Milano. Per i successivi dieci anni la famiglia sembra avere trovato una certa stabilità, dopo tante peripezie. «A un certo punto ero perfino riuscito a trovare un posto come impiegato in un’agenzia di marketing. Ho lavorato lì per quattro anni, ma quando hanno perso un cliente importante hanno dovuto tagliare il personale e sono rimasto a casa». Si ricomincia da capo: ancora una volta, non ha più i soldi per pagare l’affitto. «È stato allora che ho conosciuto i ragazzi del Comitato». Per lui quello che fanno non è semplice occupazione, ma un progetto politico che coinvolge decine di persone e un intero quartiere. «Alcuni hanno pregiudizi nei confronti dei centri sociali, ma qui non ci abitano certo dei drogati: se non ci credete, venite a vedere voi stessi» esorta. «Perfino i vicini degli altri palazzi non sono disturbati dalla nostra presenza, perché sanno che siamo persone per bene. Per noi è importantissimo il fatto di avere una dignità e un decoro, quelli che all’inizio avevamo perso a causa di questa società capitalista. Vogliamo riaffermare che prima dei soldi c’è l’essere umano».

Oggi Jorge ha finalmente un lavoro più stabile, stavolta da metalmeccanico; suo figlio sta per iscriversi all’università, vorrebbe studiare ingegneria. Chiaramente la loro vita non è tutta rose e fiori. «Ancora oggi, ad esempio, come occupanti non abbiamo diritto alla residenza» sospira. Si sono organizzati, come molti altri nella stessa situazione, per ottenerne una fittizia: «Paghiamo ogni mese una persona che vive sola, che accetta di farci risultare residenti a casa sua» spiega. Spera di doverlo fare per il minor tempo possibile, però: «Appena ne avrò modo, me ne andrò da SMS e lascerò il posto a un’altra famiglia più bisognosa» afferma deciso. «Ma continuerò a fare parte di questo progetto e a dare il mio contributo». Per chi volesse intraprendere la sua stessa strada, ha un solo consiglio: «Bisogna essere consapevoli che non si tratta semplicemente di ottenere una casa gratis e approfittarne. Questo è un percorso: nel momento stesso in cui metti piede qui, ti prepari ad andartene, e a passare il testimone a qualcun altro».