Food delivery, chi sono davvero i rider che consegnano il cibo a Milano | Rolling Stone Italia
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Indovina chi ti porta la cena

Una ricerca racconta per la prima volta chi sono i rider che consegnano il cibo nelle nostre case o in ufficio. Sono stranieri e lavorano fino a 50 ore a settimana. Alla faccia della cosiddetta "economia dei lavoretti"

Indovina chi ti porta la cena

Foto IPA

In pochi anni sono diventati un piccolo esercito, fino a cambiare la mobilità e a volte – quando si ritrovano a sostare per ore nello stesso parchetto, in attesa di una chiamata – persino l’arredo urbano. Sono i rider, ragazzi (e non solo) che consegnano il cibo nelle nostre case o nei nostri uffici. Si trovano a Milano, dove se ne calcola oltre tremila, a Roma, a Bergamo, Bologna, Brescia, Firenze, Monza, Padova, Piacenza, Torino e Verona. Queste, per il momento, sono le aree metropolitane coperte da Deliveroo, la più grande tra le multinazionali che si spartiscono il servizio. Le altre sono la spagnola Glovo – che arriva anche in Sicilia, a Palermo e Catania –, Just Eat, Uber Eats, Foodora – di recente acquisita da Glovo – e l’ultima arrivata Moovenda.

Tutte funzionano tramite un’app, quella con cui ordiniamo da mangiare e che rappresenta il capo invisibile ma molto esigente per migliaia di lavoratori da Nord a Sud. Oggi sappiamo qualcosa di più su di loro, grazie a una ricerca del dipartimento di Studi Sociali e Politici dell’Università degli Studi di Milano. «Ci risulta non fosse ancora stato fatto nulla di simile al mondo», spiega il professor Paolo Natale, che assieme al collega Luciano Fasano ha coordinato lo studio, portato avanti da 25 studenti dell’ateneo tramite 218 interviste face to face ai rider milanesi. Incontrati nei loro “luoghi di lavoro”, tra le strade Porta Venezia, davanti alla Stazione Centrale, in Porta Romana, sui Navigli o al Parco Sempione.

«Tutti gli altri studi sul tema erano stati condotti tramite sondaggi via web. Le stesse compagnie di delivery – soprattutto Deliveroo, che vanta il 41% delle persone coinvolte nel progetto dell’università lombarda – ne effettuano ciclicamente tra i loro collaboratori, ma i risultati cui arrivano loro sono molti diversi dai nostri: secondo loro i rider sono a maggioranza italiani e lavorano in media 13 ore al giorno, per dire».

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Dalla ricerca emerge tutto l’opposto, «nonostante la reticenza di molti di loro a parlare». Gli intervistati sono quasi tutti uomini, fatta eccezione per una manciata di studentesse. Sono giovani e giovanissimi (il 23% dai 18 ai 21 anni, un altro 62% dai 22 ai 30), ma nell’85% dei casi non frequentano al momento istituti scolastici. Anzi, la scolarizzazione è abbastanza bassa: solo il 14% è laureato, pari merito chi ha un diploma e chi si è fermato alle medie. «Nell’ultimo anno è mezzo, da quello che abbiamo capito, è cambiato l’universo di riferimento del settore: prima c’erano molti universitari, che portavano a casa qualche soldo con le consegne. La riduzione del loro numero è stata graduale ma sensibile, e dipende soprattutto dalle scelte dell’algoritmo che va a premiare chi è sempre disponibile, oltre che puntuale e apprezzato dai clienti».

Quindi, di fatto, l’attività è incompatibile con altri impegni o mansioni. Viene così svelato il grande trucco della definizione di gig economy, o economia dei lavoretti. Quello dei rider è un lavoro vero e proprio, e pure parecchio impegnativo. «Il 29% degli intervistati fa più di 50 ore di lavoro alla settimana, il 25% tra le 40 e le 50. Non c’è alcun tipo di autonomia, chi è “flessibile” perde il posto».

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Non per questo gli inquadramenti contrattuali sono quelli di un lavoratore dipendente. Il 50% dei rider coinvolti è un “libero professionista” forzato, un 12% si dichiara “partita iva” oppure lavoratore a chiamata, il 9% infine dice di non sapere esattamente qual è la sua situazione. «Sono lavoratori pseudo-autonomi, la loro è una forma di lavoro spot rinnovata attraverso contratti di breve durata e reiterati nel tempo», spiega Natale. Non c’è sindacalizzazione, «almeno non a Milano, dove abbiamo svolto la ricerca». Di più a Bologna, dove negli ultimi giorni si sono riaccese le proteste degli operatori del settore. «Non di rado ci sono stati episodi di moral hazard, abuso di posizione dominante da parte dei datori di lavoro. Abbiamo avuto notizia di un rider investito mentre attraversava le strisce con la bici a mano, e l’azienda si è rifiutata di offrirgli tutele. Le assicurazioni sono inesistenti, così come nella maggior parte dei casi i contributi».

Per tutti questi motivi la percentuale di italiani tra i rider è crollata nel tempo. Il 34% degli intervistati è nata nel nostro Paese, contro il 40% di persone che provengono dall’Africa e il 15% di asiatici. «Ma gli italiani sono più facili da contattare, quindi è verosimile che la reale proporzione sia 80-20 a favore degli stranieri». Che, in molti casi, fanno fatica con la lingua. Il 30% degli intervistati non sa l’italiano, e spesso ha ricevuto anche poca formazione sul codice della strada e sulla viabilità cittadina. «Una buona parte di loro non vive a Milano», conclude Paolo Natale. «Sono pendolari che, magari a notte inoltrata, dopo aver girato tutto il giorno, prendono un treno, oppure usano le loro stesse moto o bici per tornare nell’hinterland o in provincia. Il giorno dopo, di buon ora, sono di nuovo in piedi e si ricomincia, per altre 8 o 10 ore di consegne».

 

 

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