Chi è Roberto Jonghi Lavarini, il “Barone Nero” dell’inchiesta di Fanpage | Rolling Stone Italia
Politica

Chi è Roberto Jonghi Lavarini, il “Barone Nero” dell’inchiesta di Fanpage

Nelle ultime ore i partiti di destra fanno finta di non conoscerlo, eppure Roberto Jonghi Lavarini è ben distante dall’immagine dell’utile idiota che una parte di politica sta provando a cucirgli addosso

Chi è Roberto Jonghi Lavarini, il “Barone Nero” dell’inchiesta di Fanpage

Da quando l’inchiesta di Fanpage sulla “Lobby Nera” ha scoperchiato per l’ennesima volta il grande vaso di Pandora dell’estrema destra nostrana, il nome di Roberto Jonghi Lavarini è balzato agli onori delle cronache, affollando le prime pagine di tutti i giornali. L’identikit è quello che abbiamo imparato a conoscere: classe 1972, discendente di una nobile famiglia piemontese di origini walser (una popolazione di origine germanica che abita le regioni alpine attorno al massiccio del Monte Rosa), dopo una laurea in scienze politiche alla Statale e una lunga militanza negli ambienti neofascisti meneghini (che gli è valsa l’appellativo di “Barone Nero”), Lavarini ha individuato la propria raison d’être nell’antica arte dell’infiltrazione politica.

La sua è una figura di raccordo che agisce in una “terra di mezzo”, il trait d’union tra un “mondo di sotto” (quello dei vari gruppi extraparlamentari che gravitano attorno alla galassia dell’estrema destra milanese) e un “mondo di sopra” (quello dei partiti istituzionali). Nello specifico, l’inchiesta di Fanpage lo vede impegnato su due fronti: da un lato nella sua attività di supporto e ricerca di finanziamenti (leciti o meno, lo deciderà la magistratura) per il sostegno della candidatura di Chiara Valcepina al consiglio comunale di Milano; dall’altro, nel suo progetto di creazione di una “terza Lega” a trazione neofascista, da perseguire attraverso il posizionamento di alcuni uomini di fiducia all’interno del Carroccio e con la collaborazione di Mario Borghezio.

Quella di Lavarini è una figura influente e ingombrante, ben lontana dall’immagine macchiettistica che una parte di politica (quella danneggiata dall’inchiesta) sta tentando di cucirgli addosso. Negli ultimi giorni, i dirigenti di Fratelli d’Italia e della Lega hanno spergiurato di non conoscerlo: Guido Crosetto, numero due di Giorgia Meloni, ha provato a giocare immediatamente la carta del discredito, etichettandolo simpaticamente come “Yoghi” e minimizzando il suo ascendente all’interno del partito, nonostante il legame diretto con l’eurodeputato Carlo Fidanza; Angelo Ciocca, eurodeputato leghista, ha denunciato Lavarini affermando che i suoi rapporti con il Barone Nero sarebbero “inesistenti”, sebbene la seconda puntata dell’inchiesta mostri un incontro privato tra i due presso gli uffici della Regione Lombardia. Lo stesso Mario Borghezio ha ridimensionato la portata della sua relazione con Lavarini, anche se le immagini che li raffigurano in macchina insieme e i toni colloquiali con cui sembravano preparare il terreno per l’istituzione della “terza Lega” sono poco equivocabili.

Insomma: Lavarini è quell’uomo che tutti conoscono ma che non conosce nessuno. Dal canto suo, il Barone Nero ha reagito al polverone mediatico e al discredito dei colleghi senza alcun timore reverenziale: è perfettamente consapevole dell’ascendente che è in grado di esercitare sulle destre istituzionali, non ha alcuna intenzione di nascondersi e non sembra disposto ad accettare tacitamente il ruolo dell’utile idiota.

“Sono assolutamente indipendente e apartitico ma nessuno faccia finta di non conoscermi o, peggio, si permetta di offendere gratuitamente me e la comunità di veri patrioti che, mio malgrado, in questo frangente, ho l’onore e onere di rappresentare”, ha scritto sul suo profilo Instagram lo scorso 1 ottobre, aggiungendo che “Il 5% di voti della destra radicale fa gola a tutti ed è indispensabile per vincere qualunque sfida bipolare, nei comuni e nelle regioni, come alle elezioni politiche”.

Parole che riassumono la caratteristica più connotante del Barone Nero: è abituato ad agire alla luce del sole. A confermarlo sono diversi aneddoti, che dimostrano come non abbia mai avuto paura di esporsi, di rivendicare pubblicamente il proprio peso politico e di difendere gli “ideali” fascisti coltivati nell’arco di un’intera vita, neppure in diretta nazionale. Nel 2014, in un’intervista concessa alle Iene – che gli valse una condanna a due anni di reclusione per apologia di fascismo con l’aggravante dell’odio razziale – affermò senza troppe esitazioni che il suo obiettivo era quello di creare un “Fronte nazionale identitario” sul modello del Rassemblement National di Marine Le Pen, confermando le sue mire egemoniche. In quell’occasione, Lavarini mise in mostra una vera e propria venerazione per i fasti del Ventennio, da lui definito come “Una splendida epoca di riforme sociali e di grandezza dell’Italia e dell’Europa, un grande periodo di civiltà, benessere, modernizzazione e riforme economiche e sociali” – aggiunse anche che “Il fascismo era come un buon papà: al bambino che sbaglia gli dai una sberlina sulla mano, al comunista una leggera bastonatina, così ragiona sui suoi errori” e che “l’unico compiuto da Mussolini sarebbe stato quello di “essere troppo buono con i suoi oppositori politici”.

Quattro anni dopo, durante la presentazione di un libro a cui presenziava anche l’onorevole Santanché, si rese protagonista di un’invettiva di 8 minuti contro il “pensiero unico globalista”, lamentandosi del fatto non si possa più pronunciare liberamente la parola “zingaro”, sottolineando che “se uno è negro è negro, se uno è bianco è bianco” e affermando che “ci sono dei gruppi politici mondiali che voglio sostituire etnicamente il nostro popolo”.

Probabilmente, se Lavarini non esita a evidenziare i suoi rapporti con le istituzioni è proprio per questa sua innata tendenza all’esposizione mediatica. In passato ha ricoperto delle cariche ufficiali, seppur piccole: è stato consigliere di zona per tre consigliature e presidente del Consiglio di Municipio 3 di Porta Venezia. Peraltro, alcuni esempi della sua ossessione per il fascismo erano già rintracciabili nella sua esperienza di politica locale: ad esempio, nel 1997 fece discutere l’arredo “pittoresco” del suo ufficio, in cui era esposta in bella vista una fotografia di Benito Mussolini – Lavarini si difese pubblicamente dicendo che si trattava di un calendario storico degli anni Quaranta, con una fotografia d’epoca diversa per ogni mese; poco tempo dopo, officiò in municipio una sorta di “matrimonio fascista”, condito da saluti romani e citazioni mussoliniane, bravata che gli costò una sospensione da Alleanza Nazionale – il partito a cui era iscritto – per decisione del segretario Gianfranco Fini, che proprio in quei giorni stava preparando uno storico viaggio in Israele.

Questi esempi dimostrano che Lavarini non è un mediatore occulto confinato in un sottobosco fatto di saluti romani e croci celtiche, ma una personalità ben visibile, egocentrica e affamata di notorietà, che ama apparire e farsi solleticare dalle luci della ribalta: sulla base di queste premesse è chiaro che risulta piuttosto difficile, per un dirigente di Fratelli d’Italia, non sapere neppure chi sia – anche perché nel 2018 era candidato alla Camera proprio con il partito di Giorgia Meloni.