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Che cosa attende davvero il Brasile

Dai paragoni con Trump fino a quelli più azzeccati con Pinochet o una politica sull'ambiente decisamente pericolosa: due esperti raccontano il futuro del Paese dopo l'elezione del nuovo presidente Jair Bolsonaro

Che cosa attende davvero il Brasile

Jair Bolsonaro, foto di Beto Oliveira via wikimedia

Omofobo, razzista, difensore della tortura e nostalgico della dittatura militare brasiliana. Tutte queste etichette appiccicate al neopresidente eletto del Brasile Jair Bolsonaro sono probabilmente vere. Ma ci raccontano ben poco del programma politico che questo ex capitano dell’esercito e deputato di lungo corso (siede alla Camera dalla 1991). La sua vittoria viene sovente ascritta alla crescita del sovranismo a livello mondiale e viene definito da alcuni commentatori il “Trump dei Tropici”. Ma le categorie del sovranismo e del globalismo mal si attagliano alle sue reali intenzioni programmatiche. Che sono ben diverse da quelle del blocco sovranista. Abbiamo sentito quindi due esperti del paese, per meglio comprendere quanto accaduto.

Gianni Alioti è il responsabile internazionale della Fim Cisl e dal 1992 al 1994 è stato residente a San Paolo in rappresentanza del suo sindacato nei paesi del Mercosur. Per lui bisogna recuperare le categorie di destra e sinistra, che in Brasile hanno un significato ancora profondo: «La destra di Bolsonaro è una pienamente neoliberista e ha poco a che vedere col sovranismo. Anche i continui apprezzamenti del nuovo presidente per la dittatura militare che ha sottomesso il Paese dal 1964 al 1985 sono fuorvianti. All’epoca la politica economica del regime aveva una base corporativa e si basava largamente sulla Carta del Lavoro del regime fascista italiano e concedeva larghi benefit a chi era iscrittio a uno dei sindacati riconosciuti dallo Stato».

E il suo programma quindi, si ispirerebbe quasi totalmente a quello del Cile di Pinochet: «Anche il Brasile di Bolsonaro si appresta ad essere una sorta di laboratorio per politiche di neoliberismo estremo. Così come il regime cileno aveva nominato un esponente della scuola economica di Chicago, il ministro del lavoro José Piñera, il nuovo ministro dell’economia brasiliano sarà Paulo Guedes. Anche lui come Piñera è un allievo di Milton Friedman e vuole abolire il sistema di contrattazione collettiva sul lavoro che negli anni delle presidenze di Lula e di Dilma Rousseff era stata fortemente potenziata. Dal Cile Guedes vuole introdurre anche una riforma pensionistica a capitalizzazione individuale e far sì che le aziende non assumano più dipendenti, ma consulenti esterni in modo da ridurre al minimo le tutele di lavoro».

Come mai però un candidato dalle idee economiche così estreme è riuscito ad affermarsi in modo così convincente alle elezioni? «Bisogna anche considerare quando accaduto negli anni precedenti: l’impeachment della presidente Rousseff nel 2014 ha condotto alle liberalizzazioni dei due anni di presidenza Temer che hanno in un certo senso preparato il paese ad accettare le idee di Bolsonaro». Già, perché il Partito dei Lavoratori è sempre stato immensamente popolare tra le classi meno abbienti ma molto meno tra le classi medie: «Negli anni precedenti alla vittoria di Lula nel 2002 potevano permettersi grazie al livello di povertà estrema di moltissimi abitanti di avere un tenore di vita agiato e di godere di un personale di servizio molto numeroso, in certi casi senza paragoni nemmeno nelle famiglie più ricche d’Italia. Per queste categorie gli ultimi anni sono stati anni di perdita di status sociale e Bolsonaro ai loro occhi era la persona giusta per restaurare un certo status sociale», conclude Alioti.

Tra gli obiettivi del neopresidente carioca, c’è anche l’eliminazione dei lacci e lacciuoli per le imprese dell’agrobusiness e l’industria mineraria. In parole povere: una decisa marcia indietro per quanto riguarda le restrizioni ambientali. Abbiamo chiesto a Paolo Giardelli, antropologo e studioso della comunità italobrasiliana, autore del documentario Deserto verde. La Foresta che non vive quali sono i principali pericoli per l’ambiente: «Bolsonaro ha dichiarato in campagna elettorale di voler sopprimere le due agenzie federali per la protezione dell’ambiente, l’Ipama e l’Istituto Chico Mendes per la Difesa della Biodiversità. Vuol far sì che le competenze passino al ministero dell’agricoltura, in modo da favorire gli interessi dei grandi gruppi agrari che lo hanno sostenuto nella rielezione. Insieme a questi, anche gli evangelici e i lobbisti delle armi hanno reso possibile la sua elezione».

Ma quindi anche l’Amazzonia è in pericolo? Spiega Giardelli: «Adesso ha fatto una parziale marcia indietro, ma per tutta la campagna ha ventilato l’ipotesi di lasciar campo libero al suo sfruttamento. E questo sarebbe di una gravità estrema, al di là delle sue dichiarazioni a effetto». E gli italobrasiliani, hanno votato per lui o per Haddad? «Purtroppo Bolsonaro è andato bene tra i cittadini originari del Belpaese – racconta Giardelli – perché molti fanno parte della classe media che si è vista trascurata negli anni passati. Uno di loro, il deputato Onyx Lorenzoni, sta per diventare Capo della Casa Civil, una sorta di primo ministro». In Brasile quindi, le nuove categorie politiche valgono relativamente, e Jair Bolsonaro sembra più un novello Augusto Pinochet, con tanto di programma economico neoliberista, anziché un moderno sovranista.