«C’eravamo tanto armati». Io, mio nonno e le Brigate Rosse | Rolling Stone Italia
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«C’eravamo tanto armati». Io, mio nonno e le Brigate Rosse

Il 10 giugno del 1981 le Brigate Rosse rapiscono Roberto Peci, che verrà ucciso poco meno di due mesi più tardi. Il padre di mia madre, Mario Mandrelli, all'epoca era procuratore della Repubblica ad Ascoli Piceno e ha seguito la fase del sequestro, aspettandone l'inevitabile epilogo. Una storia di famiglia in una provincia che cura il rimorso con la rimozione

«C’eravamo tanto armati». Io, mio nonno e le Brigate Rosse

Foto di Roberto Peci, ucciso dalle Brigate Rosse il 3 agosto del 1981

Anni di lavoro e alla fine mi restano solo alcune carte. Vecchi giornali, diari, appunti, documenti giudiziari. E qualcosa in una chiavetta Usb, un’abitudine ormai inutile che conservo non so neanche perché. Il 10 giugno di 41 anni fa, un martedì qualunque di inizio estate, a San Benedetto del Tronto le Brigate Rosse rapivano Roberto Peci, il fratello di Patrizio, primo pentito della loro storia.

Roberto sarà ucciso il 3 agosto, in un casolare di Roma, dopo vari comunicati inviati ai giornali e un processo popolare in cui il sequestrato ammetteva di essere un traditore. La verità è che non lo era, e il suo omicidio fu una ritorsione perché il fratello aveva parlato davvero, mettendo nei guai alcuni pezzi molto grossi delle Brigate Rosse. Una vendetta trasversale da Cosa Nostra più che l’azione di un gruppo comunista rivoluzionario.

Il padre di mia madre, mio nonno Mario Mandrelli, all’epoca era procuratore della Repubblica ad Ascoli Piceno, ha seguito la fase del sequestro aspettandone l’inevitabile epilogo – tutti avevano capito che non c’erano speranze di ritrovare Roberto vivo: la sua esecuzione doveva essere un messaggio rivolto a tutti coloro che avevano intenzione di collaborare con lo Stato – e poi ha messo in piedi il processo ai brigatisti responsabili, su tutti Giovanni Senzani, il «Professor Bazooka» che ereditò le Brigate Rosse dopo l’arresto del secondo nucleo storico e si rese protagonista di quella che forse è stata la fase più ambigua e sanguinaria dell’organizzazione.

Nella famiglia di mia madre – media borghesia, moglie, marito, tre figlie femmine, un maschio, un solo appartamento con due stanze da letto – quel periodo lo ricordano in maniera sfumata, alzando le spalle più che la voce. Certo, i piantoni sotto casa, Mario che al mattino veniva caricato su un’auto blindata e andava a lavorare con la scorta, i «tizi strani» (la Digos) al seguito ogni volta che qualcuno andava fuori a mangiare una pizza o al cinema, la notte che diedero fuoco a un’automobile sotto casa e solo grazie a un gruppo di studenti libici in vacanza il mezzo venne spostato e non esplose. Ecco, di questo episodio mia madre, adolescente, ricorda solo che pensava che il giorno dopo non sarebbe andata a scuola, e invece mio nonno ce la mandò lo stesso: «Perché le cose devono andare avanti come sempre».

Le cose, in effetti, sono andate avanti come sempre anche quando Mario era diventato «il primo della lista», quello a cui le Brigate Rosse l’avevano giurata e che avrebbe dovuto pagare caro e pagare tutto il prima possibile. Ecco, a questo punto, negli sporadici discorsi familiari sull’argomento, qualcuno arriva ad ammettere che quelli erano anni molto cupi. Il terrorismo c’era e non c’era, rendeva la vita quotidiana incerta, là dove la sensazione è che la tranquillità di una vita in provincia possa crollare da un momento all’altro.

Non crolla mai – se c’è una cosa sicura nella vita è che in provincia non accade mai niente di niente, per definizione, è un’anestesia totale mascherata da routine –, ma il pensiero che possa succedere è sempre presente. È la goccia che scava la roccia, non ci fai caso finché arriva il giorno in cui ti accorgi che ha fatto un bel buco.

Con i nervi vale lo stesso identico discorso: San Benedetto del Tronto ha curato il rimorso per quei fatti con la loro rimozione. La strada dove andò in scena in rapimento, via Arrigo Boito, nel 2011 è diventata via Roberto Peci, ma nessuno sembra farci caso quando ci passa davanti, sul lungomare. E anche chi c’era sembra più concentrato su se stesso, sulla necessità di discolparsi, di dichiararsi altrove, di dire che non c’entrava niente, che sul fatto in sé.

In questa città l’extraparlamentarismo di sinistra è stato fortissimo, dalla rivolta popolare che seguì il naufragio del motopeschereccio Rodi (dicembre 1970) alla creazione di gruppuscoli armati nel decennio successivo, fino all’innalzamento della colonna marchigiana delle Brigate Rosse e, appunto, all’affaire Peci.

Ho passato anni a leggere vecchi giornali per farmi un’idea. Poi, un bel giorno, mi sono messo a rovistare nei cassetti della casa dove vive mia nonna. Qualcosa ho trovato, le carte di cui sopra, e dei diari. Sono decenni che mia nonna appunta ogni giorno quel che le succede su delle agende. È così che ho ritrovato le pagine compilate nei giorni del sequestro di Patrizio Peci, estate 1981, e del processo per quei fatti, estate 1986, scoprendo la dimensione privata, talvolta privatissima, di quel pezzo di storia.

Che farsene? Non ho una risposta precisa, io sono stato capace solo di continuare a cercare le tracce di quello che è stato, dei volti, dei pensieri e delle abitudini della mia famiglia. E poi anche di quelli che della mia famiglia non facevano parte. Ho passato decine di ore a parlare con donne e uomini che all’inizio degli anni ’80 avevano sì e no 20 anni e bazzicavano l’ambiente in cui è maturata la tragedia di Peci.

Forse, anzi di sicuro, questa gente non si accorgeva di quello che gli stava crescendo attorno, e se adesso l’analisi si limita al fatto che arresti ed eroina hanno fermato la generazione che credeva di poter cambiare il mondo a colpi di pistola, quel che si sottovaluta è che, più probabilmente, siamo in presenza a una lunga serie di fallimenti personali mascherati da fallimenti politici. È il dettaglio forse più doloroso: quei giovani – i rotunderos raccontati da Silvia Ballestra ne I giorni della Rotonda – non hanno perso tutti insieme, ma uno per uno, dunque non si può parlare di sconfitta collettiva né si può in questo modo sollevare dalle proprie spalle il peso della storia.

Cosa resta, quattro decenni dopo, di quei fatti? Cosa può capirci una persona nata in un altro momento, che non ha mai vissuto il periodo in cui era pericoloso uscire di casa, quando ogni giorno c’era un morto ammazzato, e se non era un morto ammazzato era un gambizzato, e se non era un gambizzato era uno sprangato, e se non era uno sprangato era un rapito? Il clima è materia da meteorologi, quindi è difficile usarlo per raccontare certe storie. È più un fatto di alone, di sensazione che permane, un disagio costante, perenne, talmente poco intenso da diventare un’abitudine.

Però c’è, alcune volte sembra quasi di vederli i fantasmi che si aggirano tra la cucina e il bagno di casa di mia nonna. Ma anche fuori. Qualche tempo fa guardavo una foto del corso centrale di San Benedetto scattata all’inizio degli anni ’80. I colori sbiaditi, i contorni dei palazzi contro il cielo troppo netti per essere reali, persone a passeggio verso non si sa dove. L’unica cosa che sono riuscito a pensare è che, con un paesaggio così davanti, la scelta tra il terrorismo e le pere non fosse poi così assurda. Basta? Certo che no. Fuori dall’immagine catturata dalla macchina fotografica c’è tutto il resto. L’averci provato, credendo pure di farcela.

L’altra parte della barricata, quella dove stava mio nonno. E poi la barricata stessa, che forse è l’unica cosa rimasta in piedi: le persone che hanno vissuto e continuano a vivere, loro malgrado e malgrado tutto. Perché è dai pezzi che si parte per fare un puzzle, e uno dopo l’altro si incastrano tra di loro, quasi sempre al posto giusto. Ogni tanto capita che un pezzo non si ritrovi e il risaluto finale abbia un buco in mezzo. Che si vede bene, ovviamente: quello che manca ha molta più importanza di tutto quello che c’è. Ma non fa niente, si va avanti lo stesso. Dopo tutto, avremo sempre San Benedetto.