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C’è un problema con il modo in cui combattiamo le bufale

Migranti torturati in Libia, zapatisti messicani contro Di Battista: come può rimanere neutrale chi è incaricato di smentire le bufale?

Una decina di giorni fa il ciclo di notizie è stato dominato dalla storia degli zapatisti contro Di Battista: una campagna social che voleva avvertire i membri delle comunità locali del Centro e del Sud America a non fidarsi dell’ex parlamentare del M5S ora in giro da quelle parti per fare reportage per il Fatto Quotidiano, con l’hashtag #DiBattistaFueraYa.

La campagna, lanciata da alcuni attivisti italiani che fanno i ricercatori universitari e sono in contatto diretto con le comunità locali, in un primo momento era stata portata avanti principalmente offline. Poi gli ideatori avevano deciso di diffonderla anche su Twitter. Dato che gli ideatori erano italiani, Di Battista è famoso solo in Italia e i contadini delle comunità rurali messicane non hanno Twitter, la versione social della campagna era girata solo in Italia. Normale.

E invece no. Nel telefono senza fili della stampa italiana la campagna era diventata una crociata dei messicani contro Di Battista – e di conseguenza erano subito arrivati gli articoli dedicati al debunking della “bufala dei messicani che vogliono cacciare Di Battista.” Professionisti del settore come Marco Castelnuovo della Stampa si erano messi ad analizzare l’hashtag scoprendo che, sorpresa, i tweet contro Di Battista non provenivano dalle campagne del Chiapas. E tutto questo aveva inevitabilmente portato acqua al mulino della propaganda grillina, che aveva sostenuto la versione di una campagna inventata ad arte dalla stampa di regime per delegittimare il M5S.

Se mi sono dilungato sui dettagli di questo caso abbastanza marginale che tutti hanno dimenticato nel giro di 48 ore è perché è emblematico di un fenomeno che sta diventando sempre più evidente e problematico: l’inefficacia e i limiti del debunking, che nel giusto sforzo di indipendenza e imparzialità finisce spesso per perdersi il contesto e rischia di fare il gioco di chi le bufale le fabbrica e sull’intorbidire le acque ci campa.

Il meccanismo è risultato evidente anche in un’altra occasione. Alla fine di agosto, alcuni giornali a partire da Avvenire hanno riportato la notizia di alcuni video shock che documenterebbero le torture subite dai migranti in Libia. I video nell’articolo di Avvenire non c’erano (“non pubblichiamo i video perché sono troppo cruenti” si leggeva all’inizio); c’erano invece diverse foto che raffiguravano degli uomini neri a torso nudo legati con delle corde o appesi a testa in giù.

I giornali italiani avevano ripreso l’articolo di Avvenire ed era montata una giusta polemica sulle condizioni di vita dei migranti nei centri di detenzione in Libia. Nei giorni successivi però il debunker David Puente aveva pubblicato un articolo sul suo blog spiegando che le foto in questione erano false e giravano da anni.

L’articolo di Puente, impeccabile dal punto di vista della ricerca e della verifica delle fonti, ha a mio avviso un problema che è il problema fondamentale alla base di tutto il debunking: si ferma alla verifica della notizia, nel caso specifico all’appurare che le foto in questione sono false, e non si preoccupa delle conseguenze che questo può avere dal punto di vista degli argomenti che offre alle narrative di destra.

E infatti l’articolo è stato subito ripreso da Salvini, che al grido di “questo i tg non ve lo diranno” l’ha dato in pasto ai suoi follower sui social. Scorrendo velocemente i commenti sotto i post appare chiaro che il messaggio che è passato non è quello che voleva lanciare il debunking, anzi. Per migliaia di persone la falsità delle foto pubblicate dai giornali implicava che anche le torture fossero false, che in generale tutta la situazione dei migranti fosse falsa. Il messaggio era “non è vero che i migranti vengono torturati, guardate come ci mentono i giornali, le foto sono false, lo dice anche un debunker neutrale”.

Non è così, ovviamente, e Puente non intendeva dire questo. Ma se Salvini riprende il suo articolo che smentisce le foto pubblicate da Avvenire il rischio è di aggiungere il peso della sua credibilità in fatto di bufale per convalidare ulteriormente la narrativa della destra. “È un problema che ci è sempre stato, “mi ha detto lo stesso David Puente via telefono. “È chiaro che utilizzano il mio lavoro nella loro narrativa, ho anche detto più volte che la gente condivide le mie cose a seconda della convenienza.”

Bisogna starci attenti, perché non è la prima volta che le destre più o meno estreme si appropriano di strumenti come il fact-checking e il debunking per i loro scopi, stravolgendone il significato e usandoli per aumentare la credibilità delle proprie narrative. Nel gennaio scorso il Guardian aveva raccontato il caso di Mediekollen, un sito svedese definito “fact-checking di estrema destra.” Dietro la postura del debunker imparziale, in realtà Mediekollen era esso stesso uno strumento di disinformazione, dedicandosi da una parte a sostenere le narrative di destra e dall’altra a smentire quelle avversarie facendole passare per teorie del complotto.

È un paradosso: da una parte c’è il debunking che si costruisce una credibilità difendendo la verità, dall’altra c’è chi usa quella credibilità per spingere bufale e narrative basate sulla disinformazione. E talvolta sono i debunker stessi che si prestano al gioco, inconsapevolmente. E la pericolosità sociale di una bufala non sta tanto nella bufala stessa, quanto nelle modalità e nell’ampiezza della sua diffusione, e nelle conseguenze che provoca – in una parola, nel modo in cui si inserisce in narrative politiche. Come risolvere il problema?

Il nucleo della questione sta nella pretesa di neutralità assoluta di chi dovrebbe smentire le bufale. Concependo il suo lavoro come quello di un’osservatore imparziale che non deve preoccuparsi d’altro se non di verificare nel merito la verità o falsità delle notizie, il debunking lascia la porta aperta a questo tipo di strumentalizzazioni che forniscono argomenti e armi alla disinformazione stessa.

Allo stesso tempo, però, un debunker non può rinunciare alla sua neutralità. “La neutralità è importante,” mi ha detto Puente. “Noi dobbiamo guardare solo a che una notizia sia vera o falsa, qualcuno magari può aggiungere una sua analisi o una sua opinione, come faccio anche io a volte, ma bisogna fermarsi lì, perché si rischia sempre di dire una cosa di troppo che ti etichetta. Non possiamo schierarci.”

Secondo Puente, l’unico modo per uscirne è lasciar perdere chi è già polarizzato ed irrecuperabile e concentrarsi su chi è ancora ricettivo nei confronti di un lavoro neutrale di ricerca della verità. “Uno come Rosario Marcianò [il più famoso complottista delle scie chimiche italiano] non riuscirai ami a convincerlo, ma c’è un mare di persone che stanno zitte, osservano e basta. Devi andare a prendere quelle, prima che si polarizzano anche loro e diventano tanti Marcianò.”

“Se Salvini condivide il mio articolo, ad esempio, ci sono persone che lo seguono e iniziano a seguire anche me e vedono come mi comporto sia nei confronti di Salvini che nei confronti di altri. Vedono la mia neutralità e magari tentavano, iniziano a capire che il mio lavoro è affidabile,” mi ha spiegato. “Il mio lavoro è raccogliere così, nei vari gruppi, le persone che non sono ancora polarizzate e magari possono cambiare idea.”

Puente è ottimista, crede che il problema non sia così grave e sia più importante continuare a lavorare in modo imparziale e neutrale puntando al lungo periodo. Ma di fatto si tratta di una posizione difensiva: cercare di rallentare il processo di polarizzazione delle opinioni, avendo ben cosciente che è l’unica cosa che si può fare. Il paradosso rimane e la lotta per la verità su internet resta in corso.

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