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C’è ancora poca parità di genere nei ruoli dirigenziali del giornalismo italiano

28 dei 30 quotidiani più letti in Italia sono diretti da maschi, così come i 7 telegiornali delle maggiori reti televisive e i 5 giornali online più letti: abbiamo intervistato alcune giornaliste italiane per comprendere le radici di questa disparità

C’è ancora poca parità di genere nei ruoli dirigenziali del giornalismo italiano

La direttrice de 'La Nazione', Agnese Pini. Foto di Roberto Serra - Iguana Press/Getty Images.

Il Reuters Institute è un centro di ricerca di Oxford che si occupa del futuro del giornalismo e di temi che riguardano l’informazione globale. Fra gli studi che pubblica periodicamente c’è quello che riguarda la parità di genere nei ruoli di potere dell’informazione. In questo specifico report osservano, di anno in anno, quante giornaliste ricoprono ruoli apicali (cioè quante sono le direttrici, vice direttrici, caporedattrici) tra giornali, tv, radio e testate online.

Lo studio analizza la divisione di genere nei ruoli dirigenziali tra 240 testate giornalistiche, in 12 nazioni diverse da 5 continenti. Come evidenziato nel report, il genere non è binario, ma nella ricerca tutti i direttori e direttrici si sono identificati come donna o uomo. Quello che viene alla luce dallo studio è che, su 179 posti di lavoro, solo il 21% è ricoperto da direttrici. Un dato che va scontrarsi anche con il fatto che, complessivamente, le giornaliste siano circa il 40% nei mercati presi in analisi.

Fra le nazioni prese a campione non c’è l’Italia ma nazioni non troppo distanti come Spagna, Gran Bretagna, Germania, Finlandia, Stati Uniti. A queste si aggiungono poi Kenya, Sud Africa, Hong Kong, Giappone, Corea del Sud, Messico e Brasile.

Per quanto riguarda l’Italia i dati sono più scarsi, ma comunque in alcuni casi si avvicinano a quelli emersi dallo studio. Le giornaliste censite rientrano nella media riportata dal Reuters Institute: sono infatti circa il 42% del totale (15.053 secondo l’Osservatorio sul Giornalismo di AGCOM del novembre 2020). E allo stesso modo dei 12 paesi presi in esempio anche in Italia contiamo pochissime giornaliste in ruoli decisionali.

Tre sono le direttrici tra i principali giornali italiani: Agnese Pini a La Nazione (e di recente promossa a capo di tutti i quotidiani del gruppo Monrif), Nunzia Vallini al Giornale di Brescia e Norma Rangeri a il manifesto. Come riportava anche Charlie, la newsletter sul futuro dei giornali del Post, i direttori uomini sono una netta prevalenza: «I direttori maschi dei trenta quotidiani più letti in Italia sono ventotto. I sette telegiornali delle maggiori reti televisive sono diretti da maschi. I cinque giornali online più seguiti hanno cinque direttori maschi».

Questo tipo di riflessione e l’impegno a raggiungere la parità di genere non è un obiettivo fine a se stesso: riguarda in profondità il ruolo che affidiamo al giornalismo e all’informazione, cioè riuscire a rappresentare la realtà. E per farlo servono voci diverse e diversi punti di vista.

Come ricorda Reuters, «Il “chi” nella domanda “chi decide quali sono le notizie?” conta sia nella pratica che simbolicamente». Chi detiene posizioni di vertice ha potere e può esercitare questo potere per plasmare le redazioni e il modo in cui il giornalismo è percepito da lettori e lettrici, come riportano vari studi.

In generale, continua il report, «Gli studiosi hanno dimostrato che possono esserci differenze nella copertura delle notizie tra le redazioni gestite da donne e quelle gestite da uomini. Più in generale c’è una maggiore attenzione al modo in cui i media riconoscono e affrontano molte disuguaglianze sociali di lunga data, sia all’esterno che all’interno [dei media stessi]».

«La diversità di genere è una grande ricchezza: più diverso è il tuo giornale più diverse sono le tematiche che ospiti e più possibilità avrai di intercettare un pubblico che sicuramente è cambiato tantissimo», racconta in videochiamata a Rolling Stone Serena Danna, vicedirettrice a Open.

«Le donne non sono né meglio né peggio degli uomini. Perlopiù, però, hanno una sensibilità diversa su alcuni temi, specie quelli di genere. Avere donne ai posti di comando aiuta a togliere incrostazioni mentali su questioni legate alla parità, alla responsabilità della parola. Questioni sulle quali i lettori e soprattutto le lettrici, specie quelli più giovani, ormai sono molto attenti», ci spiega invece Stefania Aloia, vicedirettrice di Repubblica. Una questione in particolare riguarda il modo e le parole per scrivere e trattare temi delicati come i femminicidi.

Aloia ci racconta, ad esempio, che da un’incidente interno al giornale è scaturita una discussione da cui «è nata una iniziativa significativa: un osservatorio femminicidi all’interno del sito di Repubblica. E, sono certa, a nessun nostro deskista verrà più in mente di titolare un caso di cronaca Uccisa per amore».

«Io non dirigo un giornale e non ho figli, ho solo un cane, eppure a volte mi sembra di non farcela, di essere sempre in affanno: perché il lavoro giornalistico è un lavoro senza orari e in verità non si stacca mai», ci dice Francesca Milano, Head di Chora, dove è responsabile dei podcast giornalistici. «Culturalmente poi credo che in Italia ci sia ancora un’immagine della donna “angelo del focolare”, paradossalmente anche nei confronti delle donne che lavorano», conclude.

Secondo il report Gender News Gap (realizzato da Women in Journalism), questa sensazione è molto condivisa e per molte giornaliste la progressione di carriera e le promozioni appaiono più difficili per loro rispetto ai colleghi uomini.

«Io non mi sono mai sentita discriminata in quanto donna né mi sono mai sentita una quota rosa. A Repubblica sono stata caporedattrice centrale (uno dei ruoli più tosti che si possa immaginare dentro un giornale) dopo un’altra donna e credo che nessuno abbia mai messo in dubbio che quel posto me lo meritassi. Idem per il mio ruolo attuale di vicedirettrice. Tutti i caporedattori centrali che mi hanno preceduto lo sono diventati. Certo bisogna sapersi far ascoltare e non sempre è facile», aggiunge Stefania Aloia.

Serena Danna, invece, prima di arrivare ad Open, ha lavorato anche come vicedirettrice a Vanity Fair con la direttrice Daniela Hamaui. «È stata un’esperienza molto importante per me. Ricordo esattamente di quando ho capito che il lavoro ai vertici è avere a che fare col potere. E avere a che fare col potere soprattutto per le donne è complicato», ci spiega Danna. «È una cosa che mi ha detto subito Daniela Hamaui, quando sono andata da lei la prima volta a chiederle un aiuto. Mi rendevo conto che c’erano dei problemi che non riguardavano mai i contenuti, ma era sempre una questione di relazioni, di modalità, di forme. Quindi lei mi ha detto “Adesso hai il potere, usalo, non ne devi avere paura”», continua Danna.

Il report del Reuters Institute ha analizzato anche la tendenza degli ultimi 12 mesi: tra i 51 nuovi direttori e direttrici dell’ultimo anno solo il 23% sono donne (appena +2% rispetto alla media complessiva) mentre una tendenza più positiva si registra in 3 paesi (Spagna, Stati Uniti e Gran Bretagna) dove almeno la metà dei posti in ruoli dirigenziali sono stati presi da donne.

Per migliorare la situazione anche in Italia non esiste una formula magica, ma si avvertono alcuni segnali più positivi. «C’è una tendenza in atto nelle realtà editoriali a nominare più donne nei ruoli apicali. È sicuramente ancora del tutto insufficiente e riconosco che questo trend possa avere anche una motivazione ‘furba’, cioè rispondere a un’esigenza di posizionamento sul mercato», racconta Aloia. «Ma le donne saranno più furbe ancora e faranno in modo che le cape cambino la mentalità e diventino un moltiplicatore per ulteriori nomine. Avere una capa rende normale scegliere una donna come capo. In ogni caso l’importante è scegliere bene: individuare donne capaci che sappiano riempire il ruolo e non essere solo una quota rosa. Lo ritengo fondamentale per vincere questa battaglia di civiltà».

Di azioni pratiche parla anche Francesca Milano: «La soluzione è semplice: gli editori dovrebbero nominare più donne direttrici e i direttori dovrebbero nominare più donne vicedirettrici e caporedattrici. Non è difficile, basta farlo. Chi lo ha fatto dice che la cosa funziona, fidatevi. Penso a Stefania Aloia, vicedirettrice di Repubblica, Fiorenza Sarzanini, vicedirettrice del Corriere: sono per me due grandi ‘best practice’ da imitare».

Nominare le persone giuste, gestire in modo diverso il potere, dare la possibilità alle giornaliste di ricoprire quei ruoli: si tratta di cambiare modi e culture all’interno delle redazioni e in generale nel giornalismo. Come ricorda Danna, «Penso che negli ultimi 10-15 anni certi automatismi rispetto a come il potere veniva tramandato e gestito all’interno delle redazioni si sono interrotti». Di conseguenza, «Persone che sono arrivate ai vertici del giornalismo – una su tutte: Barbara Stefanelli, vice direttrice del Corriere della Sera – hanno iniziato a spingere non solo per le loro carriere, ma anche perché all’interno dei giornali si sviluppassero delle culture differenti rispetto al passato, e questo inevitabilmente passa anche dalla eguaglianza di genere in posizioni chiave».