Basta confusione: così la Cina ha sconfitto il coronavirus | Rolling Stone Italia
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Basta confusione: così la Cina ha sconfitto il coronavirus

Mobilitazione, droni, test, il caso Li Wenliang e le accuse di aver nascosto l'epidemia: proviamo a fare chiarezza sul modo in cui la Cina ha gestito la crisi sanitaria e – almeno per ora – sconfitto il coronavirus

Basta confusione: così la Cina ha sconfitto il coronavirus

STR/AFP via Getty Images

Quando si parla di Cina è facile sviluppare un certo sospetto e scetticismo per le notizie che ci arrivano da lì, alimentato spesso da un misto di red scare e sinofobia presenti anche nelle menti più tolleranti – da cui tutta una serie di bufale e teorie del complotto, ultima quella rilanciata da Salvini e Meloni sul virus “creato in laboratorio”.

In generale, la distanza geografica, la barriera linguistica, la differenza culturale e un sistema politico molto diverso dalla democrazia liberale occidentale non aiutano a comprendere ciò che succede nel Paese più popoloso del mondo, in particolare all’epoca del coronavirus. La gestione della crisi SARS-CoV-2 ci viene raccontata dai corrispondenti esteri con un misto di esaltazione e paura – da una parte tessendo le lodi del sistema cinese di contenimento del virus, dall’altra puntando il dito su un governo illiberale e autoritario, reo di aver taciuto informazioni sull’epidemia e di aver agito in ritardo nel contrastarla.

Proprio sui ritardi andrebbe fatto il più semplice degli esercizi, prendendo un calendario e posizionando gli eventi. Sappiamo che la Cina ha avvisato l’OMS il 31 dicembre 2019, dopo aver investigato da metà dicembre quella che veniva chiamata “polmonite di origine sconosciuta”: il primo paziente noto ha cominciato a sviluppare i primi sintomi dai primi di dicembre; già dal 12 dicembre la China Central Television (CCTV), riferiva di un “focolaio virale a Wuhan, nell’Hubei”; la notizia però è arrivata sui media occidentali solo l’ultimo giorno dell’anno.

La risposta cinese all’epidemia insomma è stata ben più celere delle tremende omissioni avutesi con la SARS  nel 2003 e in linea con la risposta di Stati Uniti e Messico nel caso dell’epidemia di influenza H1N1: la comunicazione alle autorità internazionali è avvenuta circa 30 giorni dopo la prima diagnosi, lo stesso intervallo temporale che nel 2009 era passato tra la prima diagnosi di H1N1 e la comunicazione delle autorità statunitensi all’OMS.

Nel pomeriggio del 30 dicembre, poche ore prima che la Cina informasse ufficialmente l’OMS, il 33enne Li Wenliang – medico oftalmologo e membro del Partito Comunista Cinese – scriveva su un gruppo WeChat che erano stati diagnosticati “7 casi di SARS” e “di non far circolare l’informazione al di fuori dal gruppo”. Cinque giorni dopo, Li e gli altri 5 membri del gruppo sono stati convocati dalla polizia di Wuhan per ricevere una lettera di reprimenda. Tutto ciò, unito al fatto che di lì a poco il medico sarebbe morto proprio di COVID-19, ha fatto sì che Li venisse dipinto dai media occidentali come un whistleblower che ha sfidato la censura cinese sull’epidemia. 

La realtà è un po’ diversa: la reprimenda contro Li era priva di basi legali e già il 4 febbraio la Corte Suprema del Popolo cinese aveva stabilito che né Li nei i suoi colleghi sarebbero dovuti essere puniti dalle autorità di polizia locali. Se è vero che i livelli intermedi della burocrazia cinese e la polizia locale l’hanno ostacolato e punito, dopo la sua morte e l’indignazione popolare che ne è seguita il governo centrale si è interessato del suo caso, due alti ufficiali governativi della regione dell’Hubei sono stati licenziati e Li è stato ufficialmente riabilitato diventando anzi un martire della “guerra popolare” contro la polmonite virale sui media cinesi, secondo le parole dello stesso presidente Xi Jinping.

Quello delle “guerra popolare” è un tema importante del modo in cui la Cina ha affrontato e sta affrontando l’epidemia. La chiamata del Partito Comunista alla guerra risuona in una parola, dongyuan, “mobilitazione”. Con un rimando alla guerra patriottica di resistenza anti-giapponese, la mobilitazione di massa per il PCC significa la partecipazione di ampi strati della popolazione, specie rurale, e l’afflusso imponente di risorse e di uomini nelle zone sensibili – sull’esempio della risposta al terremoto del Sichuan nel 2009. Facendo suo l’insegnamento di Mao Zedong, il Partito sa che non può “perdere uomini e mantenere i territori” perché, in tal caso, sia i territori che gli uomini sarebbero ben presto persi. 

La strategia cinese contro il mogui, il demone invisibile del COVID-19, non è stata solo l’edificazione rapida e sorprendente di ospedali. Secondo Bruce Aylward, epidemiologo e consulente dell’OMS, le autorità cinesi “hanno usato strumenti di sanità pubblica standard e vecchio stile e li hanno applicati con rigore e approccio innovativo su una scala che non avevamo mai visto prima nella storia”. Queste misure estremamente aggressive hanno permesso a milioni di persone di evitare il contagio. Quali sono, dunque, le caratteristiche principali del modello cinese per la lotta la coronavirus?

In primo luogo, forse prima ancora del distanziamento sociale, fare tantissimi test: solo nella provincia del Guangdong in meno di un mese (al 20 febbraio) ne erano stati realizzati circa 320mila. Quando i test non erano ancora possibili si è cercato di ridurre i tempi di ospedalizzazione dei casi sospetti, tracciando i contatti ravvicinati e indagando sulle sue attività. Il governo ha inoltre garantito la gratuità dei test e dei trattamenti.

In parallelo ai test, non solo nella regione dell’Hubei ma in tutta la Cina è avvenuto il sequestro di alberghi e strutture private, che insieme a stadi e a scuole di Partito sono stati riconvertiti in luoghi dove isolare e trattare i pazienti con forme più lievi della malattia. Al sequestro per fini medici si è aggiunta anche la requisizione degli apparati produttivi: come ha detto il consigliere di Trump Peter Navarro, la Cina  ha di fatto nazionalizzato il ramo cinese della 3M, azienda leader del settore delle mascherine, per garantire gli approvvigionamenti.

Allo stesso tempo robot, droni e intelligenza artificiale sono stati ampiamente impiegati per minimizzare i rischi di contatti fra personale medico e pazienti e per tracciare ulteriormente gli spostamenti, monitorare la temperatura, riconoscere eventuali violazioni, facendo in modo che la polizia avesse il compito non tanto di collezionare autocertificazioni ma monitorare e testare, seppur superficialmente, i cittadini.

Oltre a queste misure – che non esiteremmo a descrivere con tonalità fosche e distopiche – e al lockdown più vasto nella storia dell’umanità, la Cina ha cercato di affrontare anche le conseguenze psicologiche che affliggono medici, pazienti e normali cittadini nelle aree dove la libertà di circolazione è stata limitata. Nell’Hubei, ad esempio, insieme ai 40mila medici mobilitati per combattere il virus sono stati mandati anche 415 psicologi e sono tate attivate oltre 600 linee gratuite di supporto psicologico.

È chiaro che la maggior parte delle risposte cinesi non siano applicabili nelle democrazie liberali occidentali. Seppur con grandi contraddizioni – che negli ultimi 40 anni hanno animato un ampio dibattito sul suo essere o meno “comunista” – la Cina resta infatti un Paese con un sistema politico autoritario e una forte direzione statale sull’economia, con lo Stato che controlla settori chiave (dall’industria pesante all’energia, dalla finanza alle TLC, passando per la terra e le costruzioni) ed è in grado di dirottare risorse ove necessario.

Se la battaglia contro SARS-CoV-2 sembra – per ora – vinta, adesso la questione è riparare ai danni economici lasciati da questa crisi e affrontare gli squilibri politici e di consenso che, anche in un sistema come quello cinese, sono presenti e inevitabili. Il tasso di crescita annuale del PIL cinese, che tanto ha ossessionato la leadership dall’inizio del periodo di “riforma e apertura” nel 1978, quest’anno era già ai livelli più bassi dal 1990 e i dati sulle vendite al dettaglio, sulla produzione, gli investimenti e l’export non faranno dormire sogni tranquilli ai vertici del Partito Comunista.  

Il “sogno cinese” (Zhongguo meng) promesso da Xi Jinping all’alba della realizzazione del primo grande obiettivo di eradicazione della povertà assoluta non può supportare la crescita della disoccupazione né, tantomeno, il calo dei consumi e una contrazione del PIL, stimata al 13% nei primi due mesi dell’anno. Sebbene l’Ufficio Nazionale di Statistica cinese affermi che l’impatto del nuovo coronavirus sarà di breve termine, esterno e gestibile e che i fondamentali per il lungo periodo rimarranno invariati, il PCC si trova dunque di fronte all’inedita sfida di una situazione interna scricchiolante e di uno scenario internazionale che ogni giorno appare sempre più problematico.

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