Basta chiamarlo ‘revenge porn’, questa è ‘diffusione illecita di contenuti sessuali intimi di terzi’ | Rolling Stone Italia
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Basta chiamarlo ‘revenge porn’, questa è ‘diffusione illecita di contenuti sessuali intimi di terzi’

Lo sostiene la sociologa Silvia Semenzin, che abbiamo intervistato in occasione dell'attivazione del primo sportello di supporto psicologico diretto alle vittime di questa tipologia di pratiche

Basta chiamarlo ‘revenge porn’, questa è ‘diffusione illecita di contenuti sessuali intimi di terzi’

PA Images via Getty Images

Uno sportello di supporto psicologico gratuito e senza distinzioni di genere per tutte le vittime di condivisione non consensuale di materiale intimo – impropriamente definita revenge porn –, il primo in Italia. “Primo Soccorso Psicologico” – questo il nome dell’iniziativa – è nato grazie alla collaborazione tra PermessoNegato, la più grande associazione europea per il contrasto alla diffusione illecita di materiale intimo e di altre forme di violenza e odio online, e Tconsulta, startup rivolta alle aziende che desiderano offrire un supporto psicologico ai propri dipendenti.

Il servizio, raggiungibile via smartphone, è disponibile h24, 7 giorni su 7. Per attivarlo basta prenotarsi nella helpline di PermessoNegato. Le vittime hanno accesso a un percorso di ascolto gratuito che comprende fino a tre consulenze virtuali, per venire incontro anche alle persone in località distanti da servizi di ascolto. Laddove sarà necessario, le vittime potranno anche fruire di un counseling aggiuntivo.

«Questo servizio nasce dal bisogno» racconta Matteo Flora, uno dei sette soci fondatori e presidente di PermessoNegato a Rolling Stone. «Noi nasciamo come mission first, quindi “per spegnere incendi”: puntiamo molto sull’azione, sulla rimozione dei contenuti e sul dare supporto legale alle vittime per aiutarle ad andare avanti. Ma sempre più spesso – spiega – ci siamo accorti che le problematiche che affrontavamo riguardavano non tanto il problema in sé, ma tutto quello che avviene dopo l’incidente, ovvero una serie di conseguenze che non eravamo attrezzati a gestire». Mancanza di fiducia, isolamento sociale, familiare e lavorativo, vergogna, ma anche problematiche più serie, come depressione, disturbo da stress post-traumatico, fino ad arrivare ad atti autolesivi e azioni suicidarie, questi alcuni dei comportamenti e delle patologie più frequenti che l’Associazione ha riscontrato nelle vittime.

«Siamo partiti più di un anno e mezzo fa – continua Flora – assieme a un’altra associazione, MamaChat, con una sperimentazione che dava però supporto soltanto alle vittime di sesso femminile. Sfortunatamente, i dati in nostro possesso ci hanno portato a comprendere che il fenomeno riguarda tutti, indipendentemente dal genere di appartenenza: abbiamo registrato un 50% di vittime di sesso maschile e un 50% femminile. Con alcune differenze qualitative: gli uomini sono più vittima di estorsioni a fini sessuali, le donne di condivisione non autorizzata di materiale intimo o intimate image-based abuse. Visto l’elevato numero di segnalazioni ricevute – circa 2.500 all’anno – e la delicatezza del tema («Sempre più spesso riceviamo richieste di aiuto anche da parte dei “carnefici”, ovvero di coloro che hanno commesso la violenza, per parlare con qualcuno dei nostri esperti»), PermessoNegato ha deciso di rivolgersi a Tconsulta per realizzare insieme un piano d’azione. «Abbiamo elaborato un protocollo che si articola in diverse fasi. La prima, che abbiamo chiamato “Primo Soccorso Psicologico”, consiste in un sostegno grado di inquadrare le prime problematiche. Il percorso si articola poi in una serie di videoconsulenze, fino a un massimo di tre, con degli psicologi e psicoterapeuti professionisti, messi a disposizione da Tconsulta. Terminata questa fase, la persona può decidere se intraprendere o meno un percorso terapeutico in totale autonomia».

Lavorare in una realtà come PermessoNegato non è semplice: «Il training per diventare nostri volontari è lungo e faticoso – spiega Flora – si viene sottoposti a test psichiatrichi almeno due volte durante il percorso. Non tanto perché abbiamo paura che entri il maniaco all’interno dell’associazione, ma perché molti dei nostri volontari sono ex vittime e vogliamo evitare loro di rivivere nuovamente il trauma». L’Associazione, inoltre, garantisce l’anonimato delle vittime e collabora con la giustizia: «Di regola, dopo due settimane cancelliamo l’identità della vittima, manteniamo solo il database dei casi. Siamo sempre in contatto con le autorità – aggiunge -, compresi i più alti gradi delle forze dell’ordine. È bene sottolineare però che i casi di “revenge porn” sono procedibili solo su querela di parte: è la vittima che deve sporgere denuncia autonomamente. Spesso siamo più veloci noi delle forze dell’ordine a rimuovere questo tipo di contenuti dal web: questo perché le forze dell’ordine hanno un protocollo legale, piuttosto lungo e rigido, a cui attenersi. Noi invece siamo un’associazione Trust and Safety, ovvero un organismo che gode di fiducia implicita. Questo significa che quando noi segnaliamo un contenuto, questo viene prima rimosso, sulla fiducia appunto, e poi controllato in un secondo momento. Inutile specificare che ci siamo dovuti meritare questa fiducia».

I dati del fenomeno

Le vittime di diffusione non consensuale di materiale intimo, in Italia, sono circa due milioni (il 4% della popolazione) e quasi il 9% degli italiani dichiara di conoscere una vittima. Un italiano su sei dichiara di aver prodotto materiale (immagini e video) intimo e uno su quattro di aver visto questo tipo di contenuti. L’età media delle vittima è di 27 anni, per il 70% donne e per il 30% uomini. Il 13% di queste appartiene alla comunità LGBTQ+.

Questi i dati che emergono dall’indagine “Revenge Porn Research 2020”, prima analisi campionaria sul fenomeno della diffusione illecita di materiale intimo e della percezione degli italiana sul tema, realizzata da The Fool Group, società di analisi e gestione della reputazione online, per conto di PermessoNegato. Attraverso un questionario online sottoposto ad un campione statistico di 2.000 casi, rappresentativi della distribuzione della popolazione italiana secondo criteri di sesso, età e regione di residenza, sono stati misurati i comportamenti e gli atteggiamenti degli italiani sul tema.

Viene fuori un quadro complesso: il fenomeno è piuttosto noto alla maggioranza degli italiani (il 75% ne ha almeno sentito parlare), anche se il 17% è convinto che non costituisca un reato in Italia, quota che sale addirittura al 35% tra le vittime. Inoltre, spesso la condivisione non autorizzata di immagini o video intimi si verifica in seguito all’invio del contenuto a qualcuno «di cui ci si fidava».

Un altro dato preoccupante che si evince dalla ricerca è il silenzio delle vittime. I motivi sono vari: in primo luogo non si denuncia perché spesso si cerca di “contrattare” privatamente con l’autore del gesto, sperando nella rimozione del contenuto; in altri casi perché si prova troppo imbarazzo per agire (nel 50% quando sono vittime gli uomini); o ancora, perché si ha poca fiducia nelle autorità e nelle forze dell’ordine (il 32% teme che la vicenda possa diventare di dominio pubblico); il 13% teme invece avvisi giudiziari presso la propria abitazione; il 7% dichiara di non fidarsi del sistema giudiziario e addirittura il 10% teme ripercussioni da parte della persona denunciata.

La conoscenza superficiale e la sottovalutazione del fenomeno da parte dei cittadini e delle autorità porta molti “carnefici” a non provare neanche pentimento per il reato commesso: solo il 13% dichiara di aver sbagliato, il 10% si giustifica sostenendo di non essere a conoscenza del fatto che il contenuto non fosse consensuale, mentre la maggioranza lo ritiene un fatto divertente o comunque non offensivo.

Se una legge non basta

Secondo Silvia Semenzin, sociologa e attivista promotrice dell’art. 612ter del Codice Penale, meglio conosciuto come reato di “revenge porn”, il problema che si cela dietro a questo fenomeno «È di tipo culturale e non sessuale. Soprattutto se si tratta di condivisione non consensuale di materiale intimo, che rientra all’interno della violenza sessuale digitale. In questo caso dovremmo parlare piuttosto di sistemi di oppressione e di volontà di controllo, del corpo femminile in particolare, nella e attraverso la sfera digitale». Ancora oggi, le donne sembrano le vittime più colpite da questi fenomeni: secondo una ricerca di Amnesty International, su 4mila donne di otto Paesi diversi, 911 hanno dichiarato di aver subito, nell’arco della loro vita, molestie o minacce online. Solo in Italia, una donna su cinque ha riferito di essere stata minacciata fisicamente o sessualmente. Nel 59% dei casi, le molestie o le minacce arrivavano da sconosciuti. «Gli strumenti tecnologici diventano così un modo per reiterare il dominio maschile sul soggetto femminile», spiega Semenzin. «Per questa ragione, le soluzioni devono essere più che altro di natura culturale ed educativa: va sradicata la cosiddetta ‘cultura dello stupro’ su cui si reggono questo tipo di violenze». A distanza di più di tre anni dall’entrata in vigore del reato di “revenge porn”, istituito dalla cosiddetta legge “Codice rosso” nel luglio 2019, il fenomeno non sembra affatto diminuire.

«Nel corso di questi tre anni c’è stata di mezzo anche una pandemia che ci ha portati tutti a stare più tempo su internet – lo confermano i dati – e quindi a utilizzare più piattaforme e a conoscerne di nuove», spiega la sociologa. «Non a caso, proprio in quel periodo è uscito il secondo scandalo legato alle chat di Telegram. Una conferma del fatto che il problema è profondamente radicato nella nostra cultura e, anche per questo, la legge non funziona da deterrente. Faccio un esempio: possiamo approvare tutte le leggi vogliamo che criminalizzino lo stupro, ma se non prevediamo anche programmi educativi, campagne di sensibilizzazione e percorsi politico-sociali per il contrasto al fenomeno, difficilmente cambierà qualcosa. La stessa cosa vale per quest’altro tipo di reato: si è giunti a una legge molto frettolosa, in cui tra l’altro, il concetto di “revenge porn” è al centro, lasciando fuori tantissimi altre forme di violenza. Addirittura, secondo alcuni avvocati esperti del fenomeno, l’80% i casi restano irrisolti nonostante le denunce».

A proposito di “revenge porn”, secondo Semenzin, l’utilizzo di questa espressione da parte dei media, della politica e anche della legge, è molto problematico. «Non bisognerebbe usare questa espressione perché, nella stragrande maggioranza dei casi, non stiamo parlando di vendetta. Semmai dovremmo parlare di volontà di potere e di controllo. Anzi, il concetto stesso di vendetta diventa la scusa perfetta per dire “Te la sei cercata” e far sentire in colpa la vittima. Le pratiche messe in atto, poi, come sappiamo, sono molto più ampie della semplice vendetta. D’altra parte, non si tratta nemmeno di pornografia, perché questa si basa sulla regola del consenso, mentre qui parliamo di condivisione non consensuale di materiale intimo. La pornografia prevede inoltre la firma di contratti per la pubblicazione di contenuti pornografici. In questo caso siamo di fronte alla diffusione illecita di contenuti sessuali intimi di terzi. Questa denominazione rischia di creare molti malintesi anche sul concetto stesso di pornografia, alimentando gli stereotipi di cui siamo vittima».